Ho passato tutta una vita a chiedermi cosa avrei provato quando mi sarei trovato di fronte alla morte. E ora che mi ci trovo devo dirlo… Non è una bella sensazione.
È un po’ come un trip allucinante e ingestibile, in effetti. Io sono qui, in mezzo al mare, in mezzo alla pece, in mezzo ad ogni forma di carnivoro acquatico esistente che vorrebbe banchettare con le mie ossa. E sto morendo di fame. UCCIDEREI per un tozzo di pane. Ma questi tizi qui, sulla zattera, vogliono fare altrettanto. È una lotta per la vita. Non siamo persone. Siamo mucchietti di esistenza senza significato. Non siamo più uomini. Siamo come animali, con la differenza che gli animali non sono patetici come lo siamo noi.
Lo senti, questo canto lontano e ancestrale? Lo senti, amico mio? È lì in fondo. Siamo salvi. Dai, alzati in piedi. Sali sull’albero maestro. Togliti la maglietta. Scuotila. Urla, più forte che puoi. Devi sputare le tonsille nell’acqua del mare, a forza di gridare. Siamo quiiiii… Veniteci a salvare…
No…. NO…. NOOOOOOO!!!! Se ne vanno! Io non ce la faccio più! Voglio bere! Me ne voglio andare da questo mare del cazzo! GROOOOAAAR!
Tutte balle. Non sto per morire. Non sono in mezzo all’oceano in balia di squali, meduse, onde, maremoti, fantasmi, virus della Svervegia e amenità varie. Sono tranquillamente seduto su una sedia qualunque e normalissima, in una bella città francese, intento a scrivere una banalissima recensione. Ma allora perché…… eh… perché?
E’ questo il punto.
Ascoltare questo disco, è come morire. Solo che dopo siete vivi e vegeti. E, soprattutto, lucidi.
“Yet Another Raft Of The Medusa (Pollard's Weakness)”. C’è una chitarra avvolgente, note cupe ma seducenti. Poi… oblio. Nero. Pece. Acqua. Nient’altro. Nulla da descrivere. La voce non è growl, è il Satana Pesce degli Abissi che reclama il suo pranzo. E i cori non sono cori. Sono voci di disperati che cercano di salvarsi la vita, e sanno di non poterlo fare, e urlano, e imprecano, e cadono. E tutto questo è…. È semplicemente fantastico. È una comunicazione umana impressa nelle note di un disco metal. È arte.
“The Divinity Of Oceans”. Mi ricorda qualcosa, di qualche altro gruppo. Ma niente nomi, sennò si scatena la polemica. L’inizio è violento, ok. Ma forse la “violenza” pura viene dopo. Quando tutto si calma, e la chitarra si fa psichedelica. La voce diventa solenne. È una cerimonia a tutti gli effetti. È la messa in onore del Dio Oceano. Questi sventurati sulla zattera della medusa saranno le sue vittime sacrificali. Il finale… è stordimento puro.
“O Father Sea”. Doom. Doom. Dooooooom. Non c’è molto altro da dire. Il Papà Mare si prende i My Dying Bride, li rende apocalittici, meno gotici e più imponenti. Più che ascoltare un disco, sembra di sentire la guida turistica della chiesa di Satana immersa nella fossa delle Marianne che dice “e qui a destra potete ammirare…”. Ammirare cosa? E’ tutto nero, e non si vede un cazzo.
“Redemption Lost”. Oh bella. Ma cos’è quest’apertura melodica? Vogliamo fare gli ariosi eh? Beh, non ci riuscirete mai. La tristezza voi ce l’avete nel sangue, come il DNA che vi hanno trasmesso papà e mamma. In effetti tutto l’album è decisamente più arioso del precedente “The Call Of Wretched Sea”… Ma la melodia è un “supporto” alla sacralità, alla “mestità”, alla “funeralità”. Non si sostituisce ad essa. È come la nave che vedi all’orizzonte. Pensi che quella sia la tua salvezza, che possa farti ritornare a terra, sano e salvo. Potrai ancora baciare una ragazza e gustare fragole con la panna!
E invece quella, la nave, non ti si caga neanche di striscio. E finisci per mordere la gamba del tizio che ti sta affianco, perché stai morendo di fame.
Il finale di questa canzone? Il suo andamento pacato e rilassato, i suoi cori ancestrali che poi si riversano in un riff dove la disperazione diventa palpabile, rendono quella manciata di minuti pericolosi per la mancanza d’aria. Per questo si dice “mozzafiato”.
“Tombstone Carousel” è sperimentale. Provano a fare qualcosa di strano. Non che mi piaccia poi così tanto, ma ammettiamolo, è una conferma della loro originalità.
“Gnawing Bones” aggiusta il tiro. Solenni, lenti, asfissianti, e poi lenti, opprimenti, e poi ancora lenti, lenti e ancora LENTI. Sono la lentezza fatta musica, ma non è una lentezza pallosa, è una lentezza che quasi ti fa paura, una lentezza che temi, una lentezza “sacra”, interminabile. È un trip, è un viaggio, è una caduta nell’oblio, è l’addio, l’addio definitivo. E quelle chitarre un po’ alla My Dying Bride quando cercano di suonare death metal, ammettiamolo, non migliorano la situazione. Ma neanche per il cazzo. Perché poi quando questi si abbandonano alle melodie languide di chitarre liquide (come l’acqua dell’oceano), eh beh, la poca luce che c’era si è spenta, ricadi di nuovo nell’oblio. Mi spiace ma… proprio non ce n’é.
“Nickerson's Theme”. È la fine. Nel vero senso del termine. Melodia, sorretta, anzi, “recitata” dalle chitarre, come una preghiera, come un rosario al capezzale di una persona amata, come la paura dell’inferno. Solo a metà il brano prende ritmo, diventa più sostenuto e orecchiabile, più metalloso, ma è una pausa per prendere un po’ d’aria, perché quando si chiude il brano, è il caso di dirlo, è come se si chiudesse la tomba sulle membra del povero ascoltatore.
Evoken, Thergothon, Skepticism, Funeral, Mornful Congregation, Officium Triste, Worship, Shape Of Despair… La lista è lunga dei gruppi funeral è lunga. Tutti gruppi fantastici. Io li adoro.
Però. Fatemela dire, questa pazzia.
STICAZZI.
Se volete “il perfetto manuale su come comporre e registrare un disco funeral doom metal innovativo” non dovete far altro che procurarvi quest’album. Procurarvelo, e poi ascoltarvelo. Finché morte non sopraggiunga (giustappunto). Di album più tristi e mesti di questo ce ne stanno, eccome. Ma qui non si tratta di “tristezza”. Qui di tratta di “morte”. La sensazione della disperazione più pura e semplice.
Tanto per farvi un paragone, così da rendere i miei deliri più comprensibili, se gli Shape Of Despair vi mettono nei panni di una persona depressa e con tendenze suicide perché la sua persona amata è morta, gli Ahab ti mettono nei panni di una persona che invece è semplicemente disperata perché essa stessa sta per morire, ed è abbastanza lucida da capirlo. Cioè tu, ascoltatore.
Non solo: si parla di innovazione. Questi qui utilizzano tutti gli effetti di pedaliera possibili per darti l’impressione di trovarti in mare aperto, e ci riescono tra l’altro. E la batteria ne vogliamo parlare? A volte fa dei giochi di piatti che rimandano quasi al jazz, trovatemi un batterista che fa qualcosa di simile in un genere come questo…
Il futuro del funeral doom metal è qui. È ora. È per sempre.
Nei secoli dei secoli.
Amen.
(Nel caso non si fosse capito, questo è uno dei capolavori del funeral doom metal di ogni dove e di ogni quando. Ci sarà un motivo se alla fine della pagina di Wikipedia alla voce “funeral doom metal” c’è un paragrafo interamente dedicato a loro e a quest’album in particolare, eccheccazzo. Comunque, per inciso, io lo comprerei anche solo per la copertina, e se non sapete cosa rappresenta vi meritate un bel CAPRA CAPRA CAPRA CAPRA ecc dallo zio Victor).
P.S. Ah già… dimenticavo. Volete le informazioni sul gruppo. Sono tedeschi. Si sono formati nel 2004. Hanno un’ossessione per Melville e le balene bianche. Il loro nome è lo stesso di quello del capitano Ahab, si proprio lui, il balenofobo che voleva incularsi la Moby col suo Dick. Dicono di suonare Nautic Doom Metal. Si, tranquilli, è un genere nuovo inventato da loro, non vi siete persi niente. È uguale al funeral doom metal, solo che quando lo ascolti, al posto di immaginarti ad un funerale, ti immagini di stare in mezzo all’oceano Pacifico a migliaia di km dalla terraferma, alle 3 di notte, senza luna, senza cibo, senza acqua, senza vestiti e senza salvagente con la paperella. Una bella sensazione.
Ecco le info le ho date, ora posso anche andare a mangiarmi allegramente un gelato. Così siamo tutti felici e contenti.
Si, lo so che è la mia solita recensione lunghissima, logorroica, delirante e scassamaroni su un disco che mi è piaciuto. E voi l’avete letta. E magari vi è pure piaciuta. E magari dopo vi procurate pure il disco. Ed è per questo, si, che io, a voi debaseriani, vi amo!;-)
Carico i commenti... con calma