C'è chi non ha tardato a bollarlo come il classico debutto senza carne nè pesce, affrettandosi poi a celebrare quanto di buono fatto in seguito, eppure, personalmente, ritengo questo disco se non un masterpiece un lavoro sicuramente eccellente sotto ogni punto di vista, lo trovo anzi nettamente superiore a questo stesso 'seguito', un seguito che vedrà la band americana allontanarsi dalle radici sperimentali, orientandosi verso influenze progressive e jazz-core a mio avviso non sempre entusiasmanti, fin troppo generiche.
Gli Ahleuchatistas di "On The Culture Industry" hanno un loro specifico suono, un suono che autodefiniscono come 'avant-technical-post-Beefheart', nome singolare quanto calzante. Semplificando Il loro è un math-rock dell'archetipo più cervellotico e maniacale, malsano, contorto e loquace, caoticamente organizzato, tecnicamente superiore, forte ora più che mai di quelle intricate trame strumentali, i tempi dispari e quella coesione tentacolare che è un pò la caratteristica primaria di questo genere. Non mancano in ogni caso argomenti secondari - dove è la sperimentazione a farla da padrona - quali gli industrialismi drone di "I Don't Remember Falling Asleep Here" e il jazz mutante di "A Thought Like A Hammer".
Numerose sono le citazioni ad entità quali Don Caballero e Cul De Sac, spicca il lavoro al basso di Derek Poteat (sempre ispirato e al centro del tutto, fonte di giri corposi e cerebrali), notevole il drumming di Sean Dail (intenso, nervoso, paranoico, decisamente meno spinto rispetto a quelli che sono gli standard math, ma mai blando tecnicamente, sfoggiando non di rado un approccio più jazz), mentre la chitarra, pur non lesinando divagazioni più o meno melodiche non lontane da certo post-rock, è quasi sempre sporca e fetiscente, i riff che ne escono fuori sono, come nel caso delle statuarie "Al Jazeera" e "Lacerate", masturbativi e psichedelici.
La produzione manca invece di quel dettaglio e di quella pulizia di Albiniana memoria, che spesso possiamo notare in vari Touch And Go, ma è anche il contrasto tra il suo suono spudoratamente DIY e la sua realizzazione tutt'altro che naif a rendere "On The Culture Industry" un opera così particolare. 4.5
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