Se sono l'originalità e la continua e illimitata sperimentazione a far passare un artista alla storia, allora ben poco verrà ricordato tra qualche generazione delle fatiche di Aimee Mann. Cantautrice solitaria, schiva, ancorata ad uno stile che ribocca di citazioni e rimandi ad altre epoche, questa bionda quarantenne della Virginia probabilmente non sarà mai in grado di creare un capolavoro immortale, ma certo finora è stata capace di inanellare, uno dopo l'altro, piccoli gioielli di elegante cantautorato pop. The Forgotten Arm non fa eccezione, sebbene sia inferiore a qualsiasi cosa la nostra abbia sfornato ad oggi.

Non intendo tenere a freno la mia logorrea nell'affrontare la descrizione del lavoro in questione. V'è innanzitutto da dire che si tratta di un concept album, formato che la nostra da tempo sembrava corteggiare (vedere il bellissimo e tematicamente quasi uniforme Lost In Space), e che racconta la storia d'amore tra il pugile John e Caroline, ragazza del sud vittima della noia e della routine. I due si incontrano, nei primi anni Settanta, alla fiera di Richmond ("Dear John") e iniziano un viaggio lungo l'America per fuggire al grigiore della provincia. Trattandosi però di un disco di Aimee Mann, è lecito pensare che qualcosa non vada per il verso giusto, che il magico meccanismo dell'innamoramento si inceppi e i due eroi siano costretti a dividersi nuovamente: e infatti così avviene soltanto alla terza canzone, quando John lascia Caroline ("Goodbye Caroline") per disintossicarsi da alcol e droghe. D'altronde le prospettive non erano delle migliori: come dice la cantastorie nel ballatone strappalacrime "King Of The Jailhouse" i due si sono affidati l'uno all'altra perché pensano che "dividersi il carico possa alleggerire il suo peso". Sono altresì due sbandati, due loser, avvinghiati l'un l'altra come naufraghi ai resti di una barca per non affondare, spinti l'uno nelle braccia dell'altra da infinito amore, ma da un altrettanto infinito timore di non farcela da soli. Da questo punto in poi la narrazione si fa più frammentaria e incerta, Aimee sembra perdere di vista il plot, dimentica l'intreccio e si lascia andare alla descrizione attenta dei due caratteri, che cesella con un coinvolgimento e un'attenzione senza precedenti. È questo il pregio principale del disco, merito del realismo tenero e avvincente che Aimee  profonde nelle sue liriche. E basterebbero davvero soltanto le liriche a motivare l'acquisto: poche pennellate e si comprende il disagio di John, rassegnato all'orrore della sua dipendenza

"I'll pour the drink like a true believer
Whose God never blinks..."

 

("I Can't Get My Head Around It")

Ed è reale e palpabile il dolore con cui Caroline, resasi conto di non poter più reagire all'accanirsi degli eventi e di non avere più modo di aiutare il compagno ("Was I the bullet or the gun?" da "I Can't Help You Anymore"), ricostruisce le tappe della loro storia (nell'altra ballata pianistica, forse la migliore del disco, "That's How I Knew This Story Would Break My Heart"). Altrettanto solide sono le due composizione finali, in cui prende corpo il trionfo finale dell'amore. Non è un lieto fine senza incertezze però: "Why does it hurt me to feel so much tenderness?" si chiede Caroline nella canzone finale. E non poteva finire diversamente, se si tiene conto della firma che il disco porta.

Musicalmente le vicende dei due protagonisti sono raccontate attraverso uno stile che cita fedelmente i clichè di certo rock degli anni in cui è ambientata la storia: boogie quasi onnipresente del pianoforte, organi hammond, basso ruvido e pulsante, dovizia di assoli di chitarra. La produzione pulita di Joe Henry tende però ad appiattire eccessivamente le trovate del disco: la scrittura (in senso prettamente musicale) della Mann ha bisogno di scenografie movimentate e barocche per incantare, qui si rivela elegantissima ma sostanzialmente monocorde e un po' involuta. Brani come "Video", "She Really Wants You" e "I Can't Get My Head Around It" sono eccessivamente simili tra loro, e il fatto che nella track list siano uno dopo l'altro non aiuta certo ad evitare che il centro dell'album sia inghiottito da un buco nero. Capolavoro del disco è forse la ninna nanna folk "Little Bombs", ed è significativo che sia anche il brano meno "aimeemann-iano" dell'opera. Se da un lato era quasi ovvio che il lirismo agrodolce del precedente Lost In Space si sarebbe evoluto in un concept album, dall'altro si è costretti a fare i conti con un lavoro indubbiamente raffinato e meritevole di rispetto, ma monocromatico e ripetitivo, che affascina e coinvolge, ma non resta nella memoria, né forse resisterà al passare del tempo.

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