"Ran", ovvero caos. Akira Kurosawa (Tokyo, 1910) nel 1970, a 60 anni suonati, a causa di una serie di insuccessi cinematografici, tenta il suicidio. E' l'episodio chiave di una vita vissuta sempre sul filo di lana, fra rimostranze politiche (è costretto ad abbandonare il suo maestro di lavoro, Kajiro Yamamoto, nel 1936 per divergenze ideologiche), successi straordinari, insuccessi monumentali, un rapporto feroce di odio-amore con il pubblico occidentale.

Il suicidio non si concretizza. Fortunatamente. Perché Kurosawa, prima di volare in Cielo (accade nel 1998), ci regala ancora due grandi film. Nel 1974 "Dersu Uzala" e nel 1985 "Ran", quello che in molti considerano il suo più grande film, superiore addirittura a "Rashomon" e "I sette samurai".

Effettivamente, "Ran" è un capolavoro, e non sarebbe azzardato considerarlo il più grande film degli anni Ottanta, con buona pace di Bergman e Kubrick. Già l'inizio è da pelle d'oca: quattro cavalieri giapponesi immobili sul punto più alto di una collina. Intorno, altre colline e un vento fastidioso. In sottofondo, dolcissime, le musiche di Toru Takemitsu. Poi, come un fulmine, ecco spuntare un cinghiale. La caccia può avere inizio, e con lei i titoli di testa. C'è già tutto "Ran" in poco più di due minuti. La calma e il caos.

Un film meraviglioso perché, principalmente, pieno zeppo di grandi immagini (per ribadire, ancora una volta, che è l'immagine, più della trama, la vera essenza di un film), un mix fenomenale di grandi momenti di quiete (con le riprese di un Giappone mai così bello), e le eterne scene di battaglia, veri e propri capolavori registici, con la mdp sempre perfettamente posizionata al centro dell'azione, senza mai invadere la "privacy" della battaglia. E così, le immagini diventano epica. Epica storica ed epica cinematografica. Kurosawa cita e reinventa Ejzenstejn prendendone a modello la grande lezione del cinema come esperimento tecnico, come stile prima ancora che racconto.

Poi, come al solito in Kurosawa, c'è sempre tutto un contorno di altissima statura, con l'immancabile William Shakespeare in primo piano. Anzi, si può dire che "Ran" nient'altro è che una libera trasposizione orientale del celebre "Re Lear" del Bardo. Senza dimenticare la cultura giapponese (evidente nella recitazione dell'intero cast, vicino al più canonico teatro No), la tragedia greca e Omero, e omaggi sparsi, difficili da individuare se non si è competenti, a vari pittori del Settecento-Ottocento (a questo proposito, rimando al bel libro di Aldo Tassone, intitolato molto semplicemente "Akira Kurosawa", pubblicato nel 1994 per la collana letterario-cinematografica "Il Castoro").

Pur nella sua consistente durata (due ore e quaranta minuti circa) resta uno di quei film imprescindibili per chiunque voglia avvicinarsi al grande cinema, quel cinema capace di emozionare attraverso l'immagine (soprattutto) e, in seconda battuta, attraverso la parola. Da segnalare, con pieno merito, i direttori della fotografia, Takao Sahito e Masaharu Ueda, geniali nel rappresentare gli stati d'animo dei protagonisti (e l'incidere del racconto) attraverso i colori, spesso lucidissimi e sgargianti, fra i più belli visti su pellicola.

Un film lungo e personale, il culmine più lucente di una carriera sempre coerente coi propri principi e le proprie teorie sul cinema, senza mai cedere a compromessi o farsi inghiottire dallo star-system, qualsiasi esso fosse. In certi momenti, guardandolo con attenzione, si ha quasi la netta sensazione che "Ran", più che un film, sia uno splendido sogno proiettato su celluloide. E forse la verità, non alberga troppo lontana.

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