"...di notte ancora ti può capitare

di udire suoni di armonium sfiatati

e vecchi Curdi che da mille anni

offrono il petto a novene...".

Il mistero eterno dell'Est - quell'indefinibile indescrivibile fascino che da secoli è parte del mito dell'Esotico - si racchiude tutto nelle opere di Al Gromer Khan. E non è puro caso, se l'Oriente nella sua vera identità si sprigiona dai dischi di un uomo apparentemente più vicino ai castelli della Baviera che al Taj Mahal o al Wat Phra Keo. Non tanto per l'infanzia spesa tra India e Marocco al seguito del padre diplomatico, l'immaginazione rapita dal Mahabharata e dalla poesia di Lord Byron. Quel che più conta è che Alois Gromer, nato a pochi chilometri dal Lago di Costanza, fu protagonista apocrifo di quella Germania musicale "cosmo-etnica" che nei primi '70 anticipo' la world music - senza che ancora se ne conoscesse la definizione; che attraverso nomi come Popol Vuh, Embryo, Klaus Schulze, Agitation Free e altri, apriva a nuove direzioni e tracciava nuovi percorsi (appena abbozzati in certi casi, già perfettamente consapevoli e definiti in altri). Special guest al sitar in "Tanz Der Lemminge" degli Amon Duul II e musicista di studio per i Popol Vuh, Gromer era stato negli anni '60 ospite e confidente privato di Sua Maestà Sisouk na Champassak, principe del Laos, da cui aveva appreso i segreti della spiritualità tantrica e la passione per i culti misterici dell'area indocinese. Ma l'incontro decisivo fu quello con il guru Ustad Imrat Khan - e a quel punto tutti i "segreti" del sitar (suo strumento principe) non sarebbero più stati tali per il nostro. Membro acquisito del Khani Gharana, la "famiglia" che raccoglie in sé i più grandi sitaristi d'India, il bavarese sviluppa, sul modello dei suoi connazionali (Klaus Wiese e Peter Michael Hamel dei Between su tutti) un ibrido di elettronica e sonorità etniche capace di sfondare ogni porta conosciuta della percezione. 

Non pure nozioni quelle che vi racconto, perché è a partire da questi dati che meglio si comprende il ruolo di Gromer Khan-esecutore/modellatore di ambienti e atmosfere - notturne, per predilezione. I livelli di tutti i suoi lavori sono altissimi: in certi casi si raggiunge una maestosità astrale con pochi eguali al mondo, e si toccano vibrazioni affini a quelle sperimentate da uno Steve Roach o da un Michael Stearns. A mio avviso "Mahogany Nights" (anno 1990) è la sua opera somma, persino superiore al tanto celebrato "Kamasutra" del 1986 o al più recente "Attar", studio sulla corrispondenza sensoriale suono-profumo che ha i suoi prodromi in Brian Eno. Poesia, melodia, senso: i tre elementi-base dell'estetica del Khan. Ciò che si può percepire nelle notti di Karachi o New Delhi, di Hanoi o Bangkok è ispirazione e contenuto (nella stessa misura) di lunghissime "notti di mogano", dilatate in quadri paesaggistici intensi e profondissimi. Tanto profondi da sfiorare la vertigine o, se si preferisce, l'estasi della contemplazione. La potenza di questa prospettiva ambientale è nella corda di un sitar appena pizzicata e/o riverberata, che costringe i riflessi a insorgere con sovrumano vigore; nell'elettronica sterminata e ipnotica di più strati sovrapposti, a far precipitare nella trance totale; nella solennità di partiture corali innestate su tappeti variamente assortiti di percussioni. Su tutto, i quasi 25 minuti di "Taj" (via d'accesso diretta alle porte del cosmo) e lo splendore inafferrabile di una "Ko-Hi-Noor" cesellata e ritoccata in ogni singolo distinto movimento.

Manifesto assoluto di TECNO-SCIAMANESIMO.  

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