Ce l'abbiamo fatta! Questo grido nel titolo contiene già tutto il disco, che canta sostanzialmente lo stupore e il ringraziamento a Dio per essere usciti dalla fame e dalla povertà.
È raro che un'opera prima, specialmente se è all'inizio di una discografia sterminata come quella di Alwin Lopez Jarreau, abbia già tutti i segni della maturità e del genio che verrà, eppure We Got By è già un disco perfetto. È vero che il nostro già calcava le scene da dieci anni e che addirittura aveva inciso un disco poi ripudiato (fece poi causa, perdendola, alla major che lo pubblicò senza il suo permesso), però questa è la prima volta che si mette in gioco davvero e la maturità c'è già tutta.
Sostenuto da una band solida, anche se non eccelsa (ma con la sua voce non ne ha bisogno, potrebbe portarsi dietro un TIR), mescola tutti gli stili della musica nera, dal Gospel al Jazz, dal Soul al Funky, in una miscela perfetta. Non per nulla è l'unico artista ad aver vinto Grammy Awards in tre diverse categorie: jazz, pop e R'n'B
Il disco si apre con i controtempi assassini di “Spirit”: impossibile star fermi. La voce agilissima saltella tra basso e batteria e quando entrano i fiati canonici, in perfetto stile Tower of Power, e le back vocalist sono già tramortito. C'è tempo per concedersi un solo di scat che strizza più di un occhio al jazz e il brano sfuma, lasciando il posto al salmo “We got by” sospesa tra Gospel e Soul.
Si sente che Al ha avuto fame, e per davvero, e quando ne parla non lo fa con toni retorici o di maniera, ma senti che è un sopravvissuto che si racconta, ma qui si sente soprattutto la sua anima religiosa, non per nulla è figlio di un pastore protestante. Dicono che il Soul abbia origine a partire dal Gospel, non so se sia proprio vero, ma in questa canzone il legame è perfetto. L'emozione è da brividi e l'esecuzione è perfetta, soprattutto quando parte il solo, in cui il suo canto si fa sassofono.
Il terzo brano “Susan Song” è quello più di maniera, starebbe bene nel repertorio di Marvin Gaye o di Isaac Hayes. Presa in sé è una gran bella canzone, ma dopo le due bombe iniziali scivola via un po' anonima in un duetto voce/pianoforte francamente già sentito, per quanto bello e gradevole.
Quarto brano è quello che poi sarà uno dei suoi cavalli di battaglia: “You don't see me”, dolente descrizione della povertà che rende invisibili agli occhi del mondo (“Cold desperation/ she is a devil in bed/ scratches my bones to bare”), ancora una volta descritta senza retorica, ma con il commovente tono della testimonianza personale. Il brano si apre con una introduzione a cappella in cui la voce si fa basso e batteria e introduce un 5/4 micidiale, segue poi una performance vocale da brividi, non per nulla nelle sue esibizioni dal vivo questo brano è ancora oggi il clou del concerto.
Neanche il tempo di prendere fiato e parte “Lock all the gates”, un altro capolavoro. Lirica, quasi classica nell'impostazione. Qui il duetto con il pianoforte non è affatto scontato, anche perché la melodia è davvero più originale, e quando entrano gli archi ci si commuove davvero fino all'esplosivo ritornello che fa accapponare la pelle nel grido dell'amante deluso che chiude tutti i cancelli e sbarra le porte della stanza interiore perché nessuno possa uscire od entrare.
Seconda facciata e parte “Raggedy Ann”, un altro sincopato potente per cantare la storia di Anna la stracciona, affascinante nel suo desiderio di libertà, lei che è “raggedy by purpose”, stracciona per scelta. Segue “Letter Perfect” altro brano un po' di maniera, che strizza l'occhio a Stevie Wonder, jazzato con la solita stratosferica tecnica vocale. Il fatto è che dopo una prima facciata come quella che hai ascoltato è difficile restare a livello. Le canzoni sono comunque molto belle, ma l'ascoltatore è già sazio, a meno che naturalmente non sia come il sottoscritto un bulimico di musica nera.
E infatti “Sweet potato pie” subito mi fa tornare la voglia. Tornano i controtempi e la voglia di ballare, ottimo il groove di basso e piano elettrico, la voce sale e scende: è sassofono basso e chitarra, in un altra performance di tecnica assoluta.
Infine si entra nella lenta “Aladdin's lamp”, perfetta conclusione di un disco superbo. Melodia sospesa tra pop e lied religioso per il brano forse più sofisticato a livello compositivo, un'emozionante ballata in cui il sopravvissuto si rivolge a chi ancora non ce l'ha fatta e lo esorta a tenere duro con parole vere e sincere: “Stand beside me now,/ I've been in your place/ And you've been in mine/ And the only difference/ Is our space and time”. La lampada di Aladino è metafora della fede che nella povertà conforta e dà speranza.
Insomma un disco che è un'opera prima, ma è già un classico. Più di una volta Al Jarreau nelle sue prove successive scivolerà su toni decisamente più easy, così che la sua discografia è discontinua, alternando capolavori e prove sempre tecnicamente eccelse, ma con poche idee e poco sentimento, ma, anche se fosse solo per questo disco meriterebbe un posto di primo piano nell'olimpo della musica nera.
Carico i commenti... con calma