Los Angeles, 1968. Kooper, Bloomfield e compagnia in una saletta fumosa che odora di moquette e di cicche spente. Sto esagerando?! "Le cose migliori succedono sempre per caso" si legge, più o meno, sul retrocopertina, e forse è proprio così.
Alan Kooper, cresciuto a soul, blues e R&B, dalla fine degli anni '50 ha suonato, registrato e prodotto di tutto, con semplicità e soprattutto con classe. Ha contribuito a quell'esplosione di creatività musicale a cavallo tra gli anni '60 e '70, ed ha attraversato suonando anche tutte le chiacchiere che hanno seguito quella grande stagione. Al momento della registrazione di quest'album aveva già accompagnato la svolta elettrica di Bob Dylan e aveva fatto parte dei Blues Project, una delle migliori live-machine di quegli anni. Era stato (co)autore, organo, piano e voce dell'esperimento Blood, Sweat & Tears molto prima che gli ottoni e il vocione di Clayton-Thomas coprissero tutto, facendo intravedere quel che poteva essere, e invece non fu. E un giorno di maggio del '68 aveva probabilmente pensato di registrare qualcosa, quando chiamò l'amico Michael Bloomfield, già nell'ensemble elettrico di Dylan e luce dei primi due (stupendi) album della Butterfield Blues Band. Un chitarrista talentuoso quanto sensibile e delicato, dal fraseggio veloce, articolato, molto personale. Gli altri convocati erano Eddie Hoh alla batteria, Barry Goldberg al piano e Harvey Brooks al basso elettrico, gli ultimi due reduci dalla sfortunata esperienza degli Electric Flag, come Bloomfield.
Quel che si può sentire di questo strano miscuglio è tutto nel primo lato, uscito fuori dalle prime 9 ore di session, in cui i nostri tirano su un blues-soul 'bianco' ispirato ed elegante con, in ordine sparso, "Albert's Shuffle", "Really" e il fiume KooperOrgan-raga-psichedelico di "His Holy Modal Majesty" oltre alla dolcissima "Man's Temptation" di Curtis Mayfield e l'estasi blues di "Stop" (Ragavoy).
Sembra però che la mattina del secondo giorno di registrazione l'estemporaneo Bloomfield, debilitato da gravi problemi di insonnia (ed eroina) se ne sia andato lasciando un simpatico biglietto che diceva pressappoco "Caro Alan, non ho dormito bene, sono tornato a casa. Mi spiace. Mike. " Così è il chitarrone wah wah-folk-blues di Stephen Stills a occupare il secondo lato, che continua con le deformate "It Takes A Lot To Cry. . . " (Dylan) e "Season Of The Witch" (Donovan), affrontate con la libertà interpretativa (e la cura delle dinamiche) di un gruppo jazz che improvvisa su degli standard. Il disco si conclude con una versione hard-psichedelica di "You Don't Love Me" (Willie Cobb) e "Harvey's Tune", il pezzo più delicato dell'album, quasi a sottolineare tutta la gamma di emozioni che questo album riesce, ancora, a regalare.
Ci sono tantissimi motivi per cui vale la pena di ascoltare e riascoltare questo disco. Primo fra tutti l'ispirazione infinita che affiora da ogni nota, come di rado capita di sentire. Poi perché tutto è stillato con una delicatezza di modi e di forme che lascia spesso senza fiato. E poi c'è la classe dei musicisti, la capoccia fra le nuvole di Bloomfield e il ghigno sardonico di Al Kooper in tenuta hippie ‘newyorkese', più attento alle note che ai fiori o all'LSD. . . ehm, che ai fiori.
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