La leva cantautorale di fine anni '60 e inizio anni '70, parafrasando liberamente De Gregori, qualcosa di irripetibile: la generazione dei Ralph McTell, dei Cat Stevens, dei Donovan, allargando gli orizzonti anche all'altra sponda dell'Atlantico si possono includere anche Leonard Cohen, Gordon Lightfoot, Don McLean, Mickey Newbury, di lì a pochi anni sarebbero ufficialmente entrati in scena anche Jackson Browne e Tom Waits, insomma un continuo esplodere di talenti purissimi, poeti della canzone ed esteti del suono, ognuno con la propria attitudine, la propria personale visione della musica, il proprio stile e caratteristiche uniche ed irripetibili: purtroppo molti di questi grandissimi artisti non hanno mai raggiunto un vero e proprio successo stabile e continuativo, spesso messi in ombra da personaggi infinitamente meno talentuosi e meritevoli di loro ma infinitamente più scaltri e populisti.
Questa sorte è toccata anche ad uno dei talenti più cristallini espressi dalla generazione d'oro del folk revival britannico ovvero Al Stewart, scozzese di Glasgow, un eclettico plasmatore di melodie e vulcanico paroliere, che con il sottoscritto condivide una grande passione per la storia contemporanea ed i suoi personaggi, che con gli anni diventerà un personale marchio di fabbrica e costante fonte di ispirazione per canzoni stupende. È veramente un peccato che nella mentalità comune gli anni '60 siano musicalmente associati a Beatles, Rolling Stones, Bob Dylan, Pink Floyd per qualcuno; sarà che detesto gli stereotipi ma con questa grossolana e semplicistica equazione molti grandissimi capolavori di quegli anni sono andati persi, relegati ad una dimensione quasi archeologica: mi chiedo se tra vent'anni ci sarà qualche ragazzo curioso che riuscirà a scoprire Al Stewart, Donovan o Ralph McTell, o se l'eredità di questi Artisti andrà tristemente a morire con il passare del tempo.
Il suo fulminante esordio, "Bedsitter Images", datato 1967, si distacca notevolmente dalla sua produzione successiva: un grandissimo capolavoro folk-pop barocco, orchestrale, privo di quella matrice prevalentemente folk rock che lo contraddistinguerà dal 1969 in avanti. Questa dimensione ne esalta in modo particolare l'artigianale raffinatezza compositiva, grazie alle orchestrazioni curate da Alexander Faris, rinomato compositore di colonne sonore per film e musical. Difatti l'album è fortemente caratterizzato da uno stile musicale e narrativo molto vivido, immediato, in cui si intuisce immediatamente il background teatrale dell'arrangiatore. La titletrack, che recentemente è stata omaggiata con una bella cover da Marc Almond nel suo "Stardom Road", ne è l'esempio perfetto con la sua tensione emotiva perfettamente amplificata dal magistrale arrangiamento, che nella sontuosa ballad "Swiss Cottage Manoeuvres" e nel vellutato minuetto "Cleave To Me" crea un'atmosfera sfocata, sognante, vellutata, un fascino retrò amplificato dalla voce di Al Stewart, che nel timbro lievemente nasale ricorda abbastanza da vicino quella di David Bowie con qualcosa dello stile affabulatorio e leggero di Donovan. Le orchestrazioni però non sono la componente principale di "Bedsitter Images", ma "solo" un tratto importante e caratterizzante: alcuni degli episodi migliori dell'album sono retti dalle spigliate melodie acustiche della chitarra di Stewart, su tutte il divertente e spensierato vaudeville di "Scandinavian Girl" o la dolcezza intimistica di "Samuel, Oh How You've Changed", i cui accordi sono stati ben riutilizzati da Ralph McTell nella sua "Streets Of London", la sottile ironia di una felpata "The Carmichaels", che mette in mostra un'attenzione rivolta ad eventi di vita quotidiana e non ancora alla grande storia e l'autobiografica, elegantissima "Long Way Down From Stephanie", meravigliosamente incorniciata dal tremulo suono di un clavicembalo, strumento che sarà caro ad Elton John nel suo "Empty Sky", di due anni successivo, che molto deve allo stile di "Bedsitter Images".
Per il suo stile e l'ambientazione delle sue canzoni "Bedsitter Images" è senza dubbio un album inconfondibilmente british, però Al Stewart già dimostra di saper guardare avanti, verso quelle influenze slave, balcaniche che qualche anno più tardi affascineranno Cat Stevens, e lo fa con "Ivich", uno strumentale intriso di severa e cadenzata drammaticità, lontano dall'opulenza seppur magnifica e mai ostentata del resto dell'album, aprendo così la strada per "Beleeka Doodle Day", che riprende idealmente lo spleen dell'iniziale "Bedsitter Images" in una forma però completamente diversa, una lunga, intensa e sofferta folk ballad, ricca di quel fascino antico tanto ammirato da Ritchie Blackmore, visionario caleidoscopio di immagini di stampo dylaniano ritmato da una batteria quasi marziale, una chiusura in grande stile per un album sublime, che sono orgoglioso non rientri nelle classifichine stilate da rotocalchi pseudomusicali di infima levatura, ma che ha veramente fatto la storia, non per finta, solo a livello di "costume" come Elvis Presley ma proponendo un sound da cui molti trarranno ispirazione per dare vita ad altre grandi espressioni d'arte, e soprattutto un album di una bellezza disarmante, da ascoltare obbligatoriamente prima di morire, ma sul serio.
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