A cinque anni di distanza da "Between The Wars" Al Stewart si ripresenta sulla scena con un colpo veramente a sorpresa; continua con la formula del concept album, spostando la sua attenzione su, beh, direi che la copertina spiega tutto. Un album completamente incentrato sul vino, un'idea insolita, spiazzante, brillante, che Al Stewart riesce a sviluppare con la consueta perizia e savoir faire; se tale pensata fosse saltata in testa a Shane MacGowan, tanto per fare un esempio, l'avrebbe sicuramente sviluppata in tutt'altro modo, diametralmente opposto a "Down In The Cellar", oserei dire, ma a quanto pare Al Stewart non è tipo da bisbocce e da taverna. Il suo quattordicesimo album in studio è qualcosa di diverso da tutto il resto della sua produzione; molto calmo, elegante e riflessivo, a tratti quasi aristocratico, caratterizzato da un taglio fortemente crooneristico, venature blues, che erano praticamente scomparse dal range stilistico dell'artista di Glasgow dopo "Modern Times" risalente al lontano 1975 e testi molto personali e filosofici, con una punta di ironia e sagacia. Insomma, roba da ristorante di classe piuttosto che da osteria.
"Socrates drank the hemlock, perhaps he didn't mind the taste, perhaps it was a noble gesture, perhaps it was just a waste, by the blue Aegean like an ancient tune, dreams of mycenean heroes, under a wine-stained moon": una calda notte d'estate, la Grecia ed un bicchiere di buon vino, questa è "Under A Wine-Stained Moon", la canzone che meglio di ogni altra descrive l'atmosfera generale che si respira di "Down In The Cellar", una ballad suadente e fascinosa, interpretata con uno stupendo mix di languore e nonchalance ed arricchita da un assolo blues avvolgente e setoso. La passione per il la bevanda di Bacco è qualcosa che accomuna tutti i personaggi che compaiono nell'album, l'algida funzionaria repubblicana di "Waiting For Margaux" e l'archeologa di "Tasting History", canzoni che necessitano di qualche ascolto attento e rigorosamente senza fretta per essere pienamente apprezzate, dimostrando che all'occorrenza Al Stewart è in grado di lavorare "di fino", dando vita a melodie dal fascino più sottile ed impenetrabile per i suoi standards, lui che ci ha abituati a grandi emozioni ed impatti immediati. Sono solo tre canzoni su tredici, quattro contando anche la breve ed elegantissima chiusura "A Glass Of Shiraz", ma nell'economia dell'opera sono le più importanti, quelle che più di tutte richiamano quell'atmosfera serale e "upper-class" di cui è impregnata tutta l'opera.
Venature blueasy a parte, l'altro tratto caratterizzante di questo album è la massiccia presenza di sonorità piano-pop dal gusto piacevolmente vintage, ad esempio il beat/vaudeville di "Millie Brown", che sembra un pezzo di "Bedsitter Images" con orchestrazioni meno altisonanti, "Turning It Into Water", potenziale singolo per la sua verve leggera e frizzante e l'atmosfera ovattata di "Franklin's Table" che si stempera in un gaudente refrain accompagnato dalla fisarmonica assumendo tonalità più spigliate e conviviali, così come i sei minuti di "The Night That The Band Got The Wine", storie di ubriachezza ai confini del surreale raccontate con la brillantezza e la levità di un consumato cabarettista. Per quanto riguarda le radici folk, si segnalano "Down In The Cellars" con il suo dolcissimo arpeggio che verrà ripreso quasi pari-pari dai Blackmore's Night in "Once In A Garden", le suggestioni spagnoleggianti di una crepuscolare e suggestiva "House Of Clocks" ed una cover di Bert Jansch, "Soho", affresco elegante ed austero della nightlife londinese, una tipologia di canzone ampiamente sperimentata dallo stesso Stewart nei primi anni '70, quindi un ulteriore richiamo al suo passato oltre che un omaggio per un "collega".
"Down In The Cellar" non è sicuramente un disco che consiglierei come primo approccio ad Al Stewart, ma rimane un lavoro notevole e di gran pregio; vario, equilibrato e scorrevole, non presenta i picchi emotivi di altri album del Nostro, è vero, ma anche questo fa parte del suo mood. In alcuni frangenti DITC riprende idee e stilemi che Al Stewart aveva abbandonato da tempo ma non suona come un album nostalgico, di "back to roots", niente affatto, è semplicemente diverso, ed un artista che riesce a reinventarsi dopo più di trent'anni di carriera merita comunque un elogio. Se fossi un esperto in materia potrei dire che le sue sonorità eleganti e soffuse si sposano bene con un bianco leggermente frizzante ed aromatico, ma siccome non lo sono neanche lontanamente mi limito ad apprezzare l'ennesimo bel disco di Al Stewart, che poi a me il vino manco piace...
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