La risposta britannica a Bob Dylan: questa etichetta fu appiccicata frettolosamente ad un acerbo ed esordiente Donovan, e la storia ha dimostrato ampiamente la sua totale e fuorviante falsità, ma c'è stato un altro cantautore scozzese che questo appellativo l'ha cercato intenzionalmente, senza ottenere riscontri particolarmente significativi a livello di immagine e notorietà, provando con convinzione a raggiungere un obiettivo tutt'altro che facile, senza riuscirci completamente, ma producendo comunque un ottimo disco. Al Stewart, due anni dopo il meraviglioso esordio datato 1967 cambia quasi completamente direzione musicale; abbandonate del tutto le sontuose orchestrazioni di "Bedsitter Images", album mai più replicabile, assolda i Fairport Convention come band di supporto: Simon Nicol e Richard Thompson alle chitarre, Ashley Hutchings al basso e Martin Lamble alla batteria. Ne risultano canzoni più sobrie, dall'ossatura acustica con chitarre elettriche blueasy di supporto, in modo da far risaltare ulteriormente testi a volte "torrenziali" e carichi di vita, riflessioni, metafore, immagini ed esperienze; non che tale componente non fosse presente in "Bedsitter Images" ma in questo secondo album viene particolarmente accentuata.
"Love Chronicles" è un ottimo disco, ma non ai livelli dell'esordio nè di molti album successivi della produzione di Stewart; diciamo che con un po' di esperienza e, mi si passi il termine non del tutto consono, umiltà in più sarebbe potuto essere molto più bello di quanto già non sia. L'incipit è semplicemente grandioso, uno dei vertici espressivi del cantautore di Glasgow: se "Bedsitter Images" rimandava l'ascoltatore ad un'Inghilterra in bianco e nero "In Brooklyn" evoca perfettamente l'intensità, l'atmosfera, il fermento della grande metropoli con tutta la sua vita e la variopinta umanità che la popola: melodia perfetta e coinvolgente per una splendida istantanea musicale, l'esempio più luminoso e brillante del nuovo corso stilistico intrapreso da Stewart. Nonostante questo felice episodio l'album si attesta generalmente su coordinate più introspettive ed autunnali, punta più sulla riflessione che sull'impatto, ragion per cui richiede qualche ascolto approfondito ed un'attenta comprensione dei testi per essere apprezzato in pieno, per questo motivo un buona canzone come "You Should Have Listened To Al", che ricalca lo stile uptempo folk-blues rock di "In Brooklyn" senza averne lo spessore risulta leggermente estraneo al contesto. La struttura portante di "Love Chronicles poggia su tre grandi pilastri come la commovente "Old Compton Street Blues", intensa e malinconica ballad di stampo prettamente cantautorale che narra con delicatezza la vita di una donna di strada, i personaggi apparentemente ordinari, sull'orlo del baratro che vengono evocati nel plumbeo blues di "Life And Life Only", concluso da un incisivo assolo di chitarra e un'affascinante "The Ballad Of Mary Foster", lunga narrazione folk interamente acustica divisa in due atti distinti: il primo, più vivace e sostenuto da percussioni tribali, descrive la vita di una normale famiglia della provincia inglese, tra prospettive e belle speranze, il secondo, lento e dolente evidenzia invece le sconfitte, le amarezze, sogni e desideri che sfioriscono nel grigiore di una quotidianità ordinaria che diventa opprimente e priva di vita.
Paradossalmente il vero tallone d'Achille, il passo più lungo della gamba, la più grande debolezza strutturale di questo album è proprio il suo presunto pezzo forte, quello che sarebbe dovuto essere quasi la raison d'etre di tutto il disco, ovvero la conclusiva, torrenziale titletrack, 18 minuti esatti: con una durata del genere è logico che l'ascoltatore si aspetti qualcosa di veramente forte a livello di carisma, personalità ed idea di fondo, e "Love Chronicles" non è una "Sad-Eyed Lady Of The Lowlands", una "The End" e nemmeno una "Alice's Restaurant Massacree" per potersi permettere una dilatazione temporale così impegnativa. A qualcuno potrebbe interessare la presenza di Jimmy Page alla chitarra; dettaglio irrilevante, ci sarebbe potuto essere chiunque altro ed il risultato non sarebbe cambiato: la canzone è un resoconto autobiografico della vita sentimentale di Stewart, con riferimenti già presenti in "Long Way Down From Stephanie" e "Swiss Cottage Manouvres" del precedente album, dalla struttura abbastanza lineare nel suo folk-blues elegante e sobrio, quello che manca è la personalità, non annoia, semplicemente scivola via senza grandi sussulti per tutta la sua durata. Non un fallimento, ma certamente un buco nell'acqua, un esperimento che difatti non verrà mai più ritentato da Stewart, neanche negli anni più floridi della sua maturità artistica, semplicemente una canzone del genere non era del tutto nelle sue corde, e questo finisce per condizionare l'esito finale di un album pregevole e di grande spessore lirico, che apre una fase interlocutoria nel percorso artistico di Al Stewart, un periodo di ricerca di un proprio stile personale che si prolungherà per altri due album.
"Love Chronicles" rimane comunque un episodio notevole nella discografia di questo grande artista, il punto più pessimista ed introspettivo, ma per un primo approccio con la sua musica ritengo molto più adatti e rappresentativi il successivo “Zero She Flies”, "Past, Present And Future" e la trilogia "Year Of The Cat"-"Time Passages"-"24 Carrots".
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