Bentrovati, cari amici di DeBaser, dopo un fisiologico periodo di pausa riprendo con rinnovato vigore la mia disamina del percorso artistico di Alastair Ian Stewart, che avevo interrotto proprio sul più bello, ovvero l'inizio dei suoi anni d'oro, segnato da un meraviglioso e purtroppo sottovalutato album come "Past, Present And Future". Da un punto di vista più strettamente commerciale ed anche a detta di molti critici la vera consacrazione avviene invece due anni più tardi con il suo sesto album in studio, ovvero questo "Modern Times", che dal mio punto di vista personale è invece l'uscita discografica più "debole", per così dire, dell'Al Stewart periodo 1973-1980. Rispetto ad un album eclettico, magniloquente e traboccante di affascinanti riferimenti storici come il suo predecessore PP&F, arricchito da raffinate ed affascinanti ballads come "Old Admirals" e "Last Days Of June 1934" e maestosi affreschi sonori del calibro di "Nostradamus" e soprattutto "Roads To Moscow", a mio parere il punto più alto mai raggiunto da Stewart come storyteller, "Modern Times" appare generalmente più opaco e dimesso, dominato da souni ed atmosfere più sfumate e riflessive, a tratti leggermente amare.

Il sofferto ed esemplare blues rock di "Carol" è il perfetto esempio di un songwriting più introspettivo e quasi esistenziale che domina quasi tutto l'album, riscontrabile anche in "What's Going On", nella malinconica ballad "Not The One", negli arpeggi cadenzati e fumosi di "Next Time", che sembra riportare all'essenzialità musicale di "Zero She Flies", con un approccio più severo e riflessivo ed anche nelle orchestrazioni (curate dal produttore Alan Parsons) della lunga e sinuosa titletrack, che fa riemergere malinconici ricordi di adolescenza in quello che sembra quasi un inno alla nostalgia, dal fascino sottile e, a seconda dei momenti, più o meno percettibile, affermazione che costituisce l'essenza stessa dell'album, ovvero una fruibilità ed un appeal fortemente condizionati da particolari stati d'animo, a volte un punto di forza, molte altre un limite.

Almeno in un primo momento sono gli unici due episodi "movimentati" a catturare l'attenzione dell'ascoltatore: il brillante omaggio alla letteratura fantascientifica di "Sirens Of Titan", accattivante e visionario uptempo folk che ricopre un po' lo stesso ruolo che fu di "Warren Harding" in "Past, Present And Future" e soprattutto un grandioso instant classic come "Apple Cider Re-Construction", un'entusiasta e spigliato country rock che profuma di America, di libertà, e di lunghi viaggi tra praterie ed assolate highways, con il vento tra i capelli e il rombo di un bicilindrico Harley-Davidson, grande omaggio ad una controcultura divenuta leggenda ad anticipazione di un grande feeling con atmosfere US-oriented destinato a continuare in "Year Of The Cat" e financo nei recenti "A Beach Full Of Shells" e "Sparks Of Ancient Light". La quintessenza di "Modern Times", la canzone che meglio lo rappresenta è senza dubbio "The Dark And The Rolling Sea", sound vellutato e cullante, quasi consolatorio nonostante il pessimismo intrinseco della canzone, un delicato accordion, eleganti fraseggi di chitarra e una voce calma che intona una bellissima poesia, perfetto paradigma della fragilità della vita: "Oh you set your course for the furthest shore and you never once looked back, and the flag you flew was a pirate cross on a field of velvet black, and those landsmen who you but lately knew were left stranded on the lea, don't call on them when the storm clouds rise on the dark and the rolling sea".

In estrema sintesi, le otto canzoni che compongono "Modern Times" formano un album di grande spessore cantautorale, qualcosa che Al Stewart aveva già tentato tre anni prima con "Orange", album nel complesso molto meno "centrato" e riuscito di questo ma capace di raggiungere grandi apici di pathos; per quanto mi riguarda l'assenza della componente di storytelling, perfettamente elaborata con PP&F e marchio di fabbrica di questo artista pesa e non poco nel giudizio finale, che ai miei occhi lo rende un interludio, un episodio di passaggio tra il grande album del 1973 e la sontuosa trilogia che lo seguirà, riuscendo a far convivere armonicamente e con classe sopraffina riflessione e storia.

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