Ad ormai quasi sei anni di distanza, "Sparks Of Ancient Light" del 2008 rimane l'ultimo album inciso da Al Stewart, per quanto ne so potrebbe anche essere l'ultimo in assoluto anche se dal cantautore di Glasgow non è arrivato nessun annuncio di ritiro dalle scene; se davvero così fosse, questo artista meraviglioso chiuderebbe la sua carriera così come l'aveva cominciata, con uno stile unico nel suo genere, con classe, umiltà e dedizione, con l'innata capacità di comunicare, esprimere quella che è la sua vocazione artistica, quelle doti di empatia e buon gusto che fanno la differenza, e soprattutto con uno dei capolavori più fulgidi della sua lunghissima carriera. Non so se "Sparks Of Ancient Light" sia veramente l'addio di Al Stewart, ma se così fosse sarebbe veramente il modo migliore di chiudere un percorso iniziato nell'ormai lontano 1967 e così ricco di fascino e meraviglie.
Ogni uscita discografica di Al Stewart, perfino le più mediocri, è qualcosa di più di un semplice disco musicale, è un frammento di cultura, nell'accezione più generale del temine. Destreggiandosi tra storia, società, letteratura, poesia, riflessioni personali e molto altro ancora, AS è sempre riuscito ed essere un testimone del mondo intorno a lui, un narratore che trasmette emozioni, senza sputare sentenze, senza profetizzare, rifuggendo da qualsiasi clichè ideologico. Nel mondo delle etichette rassicuranti, dei personaggi preconfezionati, del marketing e dei target di pubblico da soddisfare le Persone come lui, gli spiriti liberi che rifuggono dal facile ribellismo sono un tesoro da preservare, ed ovviamente anche le loro opere, specialmente quelle come "Sparks Of Ancient Light". Si, ma in fondo cos'è che rende tanto speciale questo disco? I colori, la varietà e la cura di quei suoni e melodie un po' vintage? Sicuramente, la metrica brillante, la profondità e l'arguzia di testi che potrebbero tranquillamente essere pubblicati in un'opera poetica? Anche questo, senza dubbio, ma in estrema sintesi "Sparks Of Ancient Light" è speciale perchè è niente più e niente meno che Al Stewart concentrato in un solo disco.
In questo sedicesimo capitolo della sua storia discografica non ci sono innovazioni degne di nota, semplicemente si riprende il discorso del precedente "A Beach Full Of Shells" allagrando gli orizzonti dai litorali albionici ad una prospettiva più mondiale, basta qusto, solo questo, unito ad a livelli sublimi di ispirazione, per dare vita all'album definitivo di Al Stewart. L'incedere solenne, volutamente pomposo e ridondante di "Lord Salisbury", dietro ad una melodia stupenda, dietro ai fasti decadenti dell'Inghiterra vittoriana nasconde un messaggio più profondo, una critica tagliente al conservatorismo politico capace di conservare solamente sè stesso, ancorato ai fasti di una gloria ormai sfiorita, incapace di comunicare con il mondo, di interpretare nuove situazioni, dare risposte adeguate a nuove istanze. Un testo di valenza universale, un'elegante ed efficace satira che molti dei Lord Salisbury odierni, privi dello spessore dell'originale, non sarebbero nemmeno in grado di comprendere. Dall'Inghilterra vittoriana all'America degli anni '50 la situazione rimane più o meno immutata: "(A Child's View Of) The Eisenhower Years", ancora scenari di modesta grandeur borghese, quelli dell'america di zio Ike perfettamente immortalati da "Happy Days", una società modello con tutti i suoi stereotipi ed i suoi preconcetti, quell'ingenuità di fondo, la ferma ed incrollabile certezza di vivere in una società modello, nell'impero del bene dove tutto viene filtrato ed edulcorato, "Your father knows what best, no one can upstage him, he thinks he's so well dressed, finds new things to outrage him, Elvis in the television, G.I. in Korea, it's a child's view of the Eisenhower years. I don't mind the innocence so much in fact is charming, the comedians have got a certain touch that quite disarming, even thought the aliens from space haunts the weekend matineès superheroes keep the citizenry safe".
Con tutt'altro tipo di approccio, senza sonorità allegre e senza metafore e parodie, la drammaticità della storia rivive in una meravigliosa a toccante "Shah Of Shahs", maestosa ballad accompagnata dal suono dolente di una viola, in cui rivive il crollo di un regno fallito, la fuga di un piccolo uomo, il cui "sogno perfetto" è stato bruscamente interrotto da forze ben superiori alle proprie mediocri capacità. Eppure la caduta del tiranno corrotto ed incapace non sembra portare nuova speranza, i vincitori, che non vengono mai citati esplicitamente nel testo della canzone appaiono come presenze fredde e aliene, pronte ad imporre la propria visione del mondo come unica legge. Una storia, quella di Reza Palhavi e della rivoluzione iraniana del '79, che nel corso degli anni ha avuto innumerevoli repliche, che purtroppo non accennano a fermarsi. Tuttavia, "Sparks Of Ancient Light" non è un disco di tematiche unicamente storico-politiche, offre molteplici altri spunti di riflessioni, e tante altre bellissime canzoni; la contemplazione romantica, il fascino maestoso di un paesaggio naturale, l'oceano sconfinato, un cielo pieno di stelle e qualche piccolo scoglio, remotissimi lembi abitati unicamente da stormi di gabbiani, questa è "The Loneliest Place On The Map", un momento di spleen, intenso, vivido e struggente, magistralmente incorniciato da liquide note di piano ed archi notturni, una parentesi naturalistica in un album in cui l'uomo, i più svariati tipi di uomini, le più svariate situazioni e riflessioni da essi ispirate dominano la scena. L'amara ironia ed il resoconto di una gioventù ribelle, ingenua ed idealista sfiorita senza successo in "Angry Bird" e l'intimo e genuino racconto di un amore nel dopoguerra, rivissuto con un tocco di pruderie vintage nella bellissima "The Ear Of The Night" con in suo lungo, languido ed affascinante arpeggio jazzy. Un amaro e disincantato blues acustico rivela l'epitaffio di un'anonima vittima del capitalismo, un uomo d'affari immerso in una vita di lussi e speculazioni che si ritrova a perdere tutto, seguendo un sogno ad occhi chiusi, "Sleepwalking" appunto, e cadendo infine nel precipizio del fallimento, mentre in altri frangenti, due in particolar modo, Al Stewart sembra ancora voler cercare nel passato frammenti di una realtà migliore, scintille di luce antica, come suggerisce il titolo stesso dell'Opera, "Hanno The Navigator", una trascinante ode agli antichi navigatori fenici, araldi della fiorente civiltà mediterranea, impavidi esploratori di mari e coste misteriose e sconosciute, ben oltre le fatidiche Colonne d'Ercole, in quelle terre dove "hic sunt leones", non fatti per vivere come bruti ma per inseguire virtù e conoscenza, e un po' più modestamente in "Football Hero", in cui rivive l'epopea della vecchia First Division inglese, senza sceicchi e pay-tv, un resoconto epicheggiante ma sobrio, misurato, un ricordo affettuoso per un calcio più umano e popolare che ormai quasi non esiste più.
Davanti a cotanta bellezza e magnificenza, è praticamente impossibile stabilire quali siano gli episodi migliori, è questione di umori e sensazioni del momento, ma in "Sparks Of Ancient Light" ci sono due canzoni che colpiscono in particolar modo, non tanto per il loro valore musicale ma per l'assoluta maestria e il genio cantautorale carico di messaggi "tra le righe" che sanno tanto di testamento artistico, "Elvis At The Wheel", un sogno surrealistico, una visione ai confini del paranormale, una bizzarra leggenda metropolitana sospesa tra Elvis E Stalin che prende forma in un intenso e passionale tango zingaresco, nobilitato da uno dei versi più belli ed intensi mai scritti dall'Al Stewart poeta, "How must it be to feel such passion, to be caught up in the thrall, in some unfathmomable fashion, like a pink and black St. Paul.", una stupenda metafora di tutta la carriera del Nostro, della sua passione e del suo approccio unico e caratterizzante. Si chiude infine con "Like William McKinley", che è secondo me l'indizio più lampante del fatto che "Sparks Of Ancient Light" segni il canto del cigno di Al Stewart, un meraviglioso walzer country, in cui l'ex presidente americano ed in particolare la sua leggendaria "front porch campaign" del 1896 diventa un pretesto per parlare di un traguardo raggiunto, di una soddisfazione intima, dell'autoconsapevolezza di non poter volare più in alto di così, concedendosi il lusso di ammirare il mondo dal portico di casa, con un sorriso sulle labbra, "I'll sit on my porch, like William McKinley and I'll let the world come to me, and if it's too busy I really won't mind and there's no place I want to be, now and again I will open the window and stare at the overcast sky, and put you away like a drawer in my mind, and I'll just bid all of my troubles goodbye".
Non so se questo possa essere considerato in assoluto l'album migliore di Al Stewart, ed in fondo neanche m'interessa, ma è sicuramente quello che amo di più, insieme forse a "Past, Present And Future", scusate per la prolissità forse un po' eccessiva, ma per "Sparks Of Ancient Light" ne vale veramente la pena, e volendo avrei potuto scrivere una piccola recensione per ciascuna delle canzoni in esso contenute, perchè ognuna di esse nasconde una scintilla di genio, il tocco raffinato di un artista unico ed irripetibile. Vorrei infine dedicare questa recensione a tutti i miei pochi ma sempre buonissimi lettori che mi hanno seguito in questo percorso, che giunge finalmente al suo compimento; è stata una sfida molto impegnativa, forse la più difficile di tutta la mia carriera di DeRecensore, ma appassionante ed appagante, che per un debito d'onore verso di loro ed ovviamente verso Al Stewart non potevo assolutamente lasciare incompiuta. Spero di essere stato all'altezza di tale compito e, se qualcuno grazie al mio umile "lavoro" è stato incuriosito e magari si è anche appassionato a questo grande artista, oppure l'ha riscoperto in una luce più ampia, allora la mia soddisfazione può dirsi completa.
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