AL STEWART: "ZERO SHE FLIES" 1970

Un caldo pomeriggio di giugno di dieci anni fa io e un mio amico ce ne andavamo a zonzo sulle colline di Prato con la sua due cavalli bianca. A un certo punto, dalla radio escono le note di una canzone che avevo già sentito da qualche parte ma di cui non conoscevo l'autore. Non era del tutto in sintonia con i miei gusti musicali, che all'epoca erano molto più rock di adesso, però rimasi colpito dalla straordinaria bellezza dell'arrangiamento. Chiesi a Alessio se conoscesse quella canzone e lui subito: "Certo! E' "Year Of The Cat" di Al Stewart!"

Questo pomeriggio stavo ripensando con una certa nostalgia a quel momento spensierato e mi viene anche un po' da sorridere se penso che i Cd di Al Stewart oggi, sono tra i favoriti della mia intera discografia. Sia chiaro, forse nessuna delle sue opere la si potrà annoverare tra i grandi capolavori di sempre, eppure Al Stewart resta a mio avviso un artista tremendamente svalutato visto che tutte le sue canzoni nell'arco della sua produzione si sono sempre rivelate molto godibili e rilassanti. Probabilmente non gli ha giovato il fatto di non essersi mai svenduto né sottomesso al volere delle grandi case discografiche. Un caso su tutti a testimonianza di ciò: nel 2000 è arrivato addirittura a incidere un disco, "Down in the Cellar", dedicato interamente a uno dei suoi grandi amori: il vino. Ben pochi penso, avrebbero il coraggio di pubblicare un'opera su un tema così poco originale e soprattutto ancor meno artisti avrebbero saputo farlo con maestria come è riuscito a lui.

Al Stewart nacque a Glasgow in Scozia nel 1945 e iniziò a ottenere sin da giovanissimo un certo credito nei circoli folk della zona tanto che già a 22 anni arrivò a pubblicare il suo primo disco "Bedsitter Images", seguito due anni dopo nel 1969 da "Love Chronicles" . Dell'anno dopo è questo bellissimo "Zero She Flies" dai toni più robusti dei precedenti che si rivelò un perfetto mix tra l'acustico e il rock. Il disco ancora oggi a distanza di quarant'anni si rivela freschissimo e suonato con quella magistrale alchimia di abilità tecnica abbinata a qualche lieve ruvidezza o imperfezione, che tanto amo nei dischi dell'epoca. Un lavoro a tratti delicato a tratti un po' aspro ma sempre molto valido e inconfondibile nello stile e in particolar modo nella timbrica nasale di Al. La ritmica poi si rivela ovunque impeccabile e dimostra come abbia sempre saputo circondarsi di ottimi e professionali musicisti nel corso della sua carriera. 

Il disco si apre con una poesia di Peter Morgan "My Enemies Have Sweet Voices" che si distingue per il sapiente uso del contrabbasso. Non mancano poi brani strumentali in chiave marcatamente folk come "Burbling" e "Room of Roots", né mancano accenni ad un'altra delle sue grandi passioni, la storia, in "Manuscript" e "Gethsemane Again". I tre brani più trascinanti sono però le stupende  "Electric Los Angeles Sunset", dove il suono tagliente della chitarra si mescola alla perfezione con un basso e batteria volutamente grezzi ma tremendamente incisivi,  la omonima "Zero She Flies" e "Stormy Night" , piccolo capolavoro disponibile però purtroppo solo come bonus track nella ristampa del 2007 e nella quale è presente un iperdistorto assolo di chitarra reso intensissimo grazie anche al martellante incedere del basso. 

Ammetto di non possedere molte informazioni in più su questo "oscuro" lavoro né sul personaggio Al Stewart ma dal poco che lo conosco sembra un tipo molto modesto e spontaneo, l'anti-divo per eccellenza e solo per questo merita a mio avviso ancor più ammirazione. Un disco non per tutti; probabilmente molto più adatto a coloro che nei '70 furono grandi ammiratori dei vari Bob Dylan, Donovan o Simon And Garfunkel. Artisti questi che furono senz'altro tra i suoi ispiratori, ma dai quali seppe comunque sempre distanziarsi con classe e originalità.

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