Quando nel 1972 l'italo-inglese Alan Sorrenti esordisce sulla scena musicale italiana, il rock progressivo è in pieno fermento e ha già dispensato diversi capolavori epocali, sia oltremanica che in terra nostrana, per cui non lo si può considerare un precursore dei tempi, né tantomeno può essere additato come innovatore del genere.
Dunque niente di nuovo sotto il sole non fosse, però, per l'incredibile uso della voce che il Nostro ci regala nella lunga omonima suite d'apertura e nei rimanenti tre brani che compongono questa sua opera prima.
In Italia forse nessuno aveva mai osato tanto fino a quel momento, (in futuro ci sarà l'immenso Demetrio Stratos) mentre fuori dai confini nazionali, Tim Buckley (all'epoca ancora in vita) è il primo nome che salta alla mente, ma ancor di più si evoca l'immaginifico mondo del sedicente ‘Chameleon In The Shadow Of The Night', al secolo Peter Hammil. Ecco, in alcuni passaggi echeggia lo stesso struggente timbro vocale, fatto di urletti, gridolini, alti, bassi e falsetti, marchio di fabbrica del leader dei mai troppo lodati Van Der Graaf Generator.
Per chi, come il sottoscritto considera la voce alla stessa stregua di uno strumento, dando un'importanza marginale ai testi, peraltro molto surreali e onirici, è un viaggio interplanetario teso a proiettare l'ascoltatore in altre dimensioni attraverso magici equilibri sonori che altrimenti usati rischierebbero di sconfinare nel presuntuoso e, perché no, nel ridicolo.
La marginalità dei testi si fa centralità quando negli spasmi lirici della title-track, rivolgendosi alla principessa del suo sogno, canta "Aria, il mio corpo sul tuo corpo si muove lentamente, Aria il mio corpo sul tuo corpo sprofonda dolcemente, ...sono entrato nel tuo corpo... nel tuo fiume sto scivolando... Aria sto impazzendo" un inciso esplicito che in pochi avrebbero avuto il coraggio di osare nel 1972.
Un lavoro complesso, sfaccettato e in alcuni punti anche ostico che obbliga l'ascoltatore a ripetute visite affinché ne colga l'essenza più prelibata e si cali nelle visioni lisergiche che devono aver affollato la mente di Alan Sorrenti nei giorni della stesura del disco, senza per questo renderlo pesante e opprimente. Il brano più fruibile è quello che uscì anche come singolo e cioè la dolcissima "Vorrei incontrarti" dove la forma canzone tout court assume connotati naturali. Le percussioni di Tony Esposito e il violino di Jean Luc Ponty, quando chiamati in causa, imprimono un accento barocco all'opera sempre guidata dagli incredibili vocalizzi dell'italo-inglese. Per quei pochi che, all'epoca, conoscevano Alan Sorrenti, immagino che non poterono credere alle loro orecchie quando dopo pochi anni si sentirono artisticamente tradire al ché, inventandosi compositore di insulse canzonette, scalò repentinamente le classifiche di vendita, così come rimasero increduli coloro i quali, sentendolo gorgheggiare quei motivetti da figli delle stelle, ebbero l'ardire di viaggiare a ritroso procurandosi il lavoro d'esordio.
Artisticamente, si può dire che, Sorrenti nasce e muore con questo disco. La fortuna commerciale ed economica gli arriderà negli anni successivi ma quella è una storia che riguarda le massaie i salumieri e le parrucchiere.
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