Questo qui non può essere considerato un disco come tutti gli altri. Alan Vega (1938-2016) assieme a Martin Rev ha scritto una delle pagine fondamentali della storia della musica e allo stesso tempo di una certa sottocultura che ancora oggi continua a proliferare in maniera sotterranea come un virus che ha infettato la terra e che costringe chi ne è contagiato a uno stato di estasi e di allucinazioni che ci rivelano la vera sostanza del mondo che ci circonda come succede in 'They Live' di John Carpenter.

I Suicide sono stati qualche cosa di più che una band influente e che ha determinato una specie di rivoluzione nel mondo della musica: i Suicide sono stati e sono ancora oggi un autentico culto. Un culto post-punk e post-moderno e i cui veri adepti sono anime tormentate così come era tormentata l'anima di Alan Vega, una specie di Gesù ossessionato dalla morte e dalle sofferenza e da visioni di morti violente e rituali: dalla crocifessione come atto di redenzione da tutti i peccati. Un artista che non riusciva a vedere e concepire lo stato di quiete, quella che noi chiamiamo pace, e che prolungando attraverso scosse elettrostatiche la vita di generi musicali quali il blues del delta e il gospel (cui ha dato un nuovo vigore e una nuova forma) predicava le sue visioni con una forza e una violenza espressiva che non hanno pari nella storia della musica.

Secondo quanto ci è stato riportato da Liz Lamere, moglie e collaboratrice di Alan, le canzoni che sono entrate a far parte di questo disco postumo denominato 'IT' e pubblicato su Fader lo scorso luglio, praticamente a un anno esatto dalla sua morte, sono state scritte e registrate tra il 2010 e fino al luglio 2016. Sarebbe stato il suo primo disco dal 2007. Raccontarle una ad una non ha nessun senso: il disco infatti non è composto da quelle che si possono definire canzoni vere e proprie, ma da scatti fotografici, istantanee delle realtà suburbane della grande città di New York dei giorni nostri. Un disco carico di energia vitale e carico di sonorità drone e post-industrial ossessivo-compulsive che riempiono di contenuti visuali e immagini le predicazioni di uno degli ultimi veri grandi bluesman della storia del rock. Un disco che secondo Liz esprime appieno la potente forza vitale di Alan, una specie di messia e il capo spirituale di una chiesa elettrica e protrettrice degli emarginati e i sofferenti, gli uomini soli e tutti quei fantasmi che si aggirano per le nostre strade e che noi non vediamo oppure facciamo finta di non vedere. La tua parola è la nostra e questa ti ha reso immortale. Adesso riposa in pace Boruch Alan Bermowitz.

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