Fu grazie a quella strana barba mezza bianca che lo riconobbero. Era sparito da venti giorni. Lo ripescarono nelle gelide acque dell’East River, a Brooklyn davanti al molo di Congress Street. Era il 25 novembre del 1970.
Aveva 34 anni. Come Charlie Parker.
“Spiritual Unity” fu registrato in un solo giorno: il 10 luglio 1964. E’ un disco intriso di libertà e di amore, ma quando lo ascolto penso ai bambini.
Perché bisogna guardarli i bambini quando giocano: sono attenti, concentrati, nulla di ciò che fanno è casuale ma, a me che guardo, il loro agire è incomprensibile; perché loro, a differenza di me, sono liberi.
I loro soldatini non combattono, le automobili volano, gli animaletti non sono animaletti e le pistole non uccidono.
E se gli chiedi cosa stiano facendo, ti guardano stupiti – ma come non è chiaro? – ti mostrano le mani, indicano qualcosa, ti offrono un giocattolo (invece di fare domande idiote, gioca!) e, se ti vogliono bene – ma ti devono davvero voler bene per fare una cosa così stupida come spiegare un gioco – e se parlano (ma se parlano sono già meno liberi) ti diranno qualcosa di incomprensibile, qualche strana parola appena inventata: bridlalà, frrrr, gnagnà. Ecco: stanno gnagnando.
Come si spiega un disco dove il sax non disegna le melodie, la batteria non porta il ritmo ed il contrabbasso - ah il contrabbasso! - qualunque cosa non stia facendo, la non fa benissimo?
Ad un primo ascolto potresti pensare che ti stiano prendendo in giro, ma io me li vedo, Ayler, Murray e Peacock, il 10 luglio del 1964, al Variety Arts Recording Studios di New York: sono attenti, concentrati, nulla di ciò che fanno è casuale ma, a me che guardo, il loro agire è incomprensibile; perché loro, a differenza di me, sono liberi.
Stanno gnagnando.
Allora questo disco non lo devi ascoltare con la testa ma con lo stomaco. E con il cuore.
Perché li devi amare quelli liberi, la gente è insopportabile quando è libera.
E’ come quando guardo lei: io so (e solo io lo so) che, quando mi nasconde qualcosa, fa quello strano sorriso e le si forma quella piccola ruga vicino al naso, ed io so (e solo io lo so) che, quando ride, stringe forte gli occhi, perché non vuole fare troppo rumore, pensa che la sua gioia potrebbe ferire qualcuno che è triste.
Così io so (e, forse , solo io lo so) che, subito dopo il quinto minuto, Sunny Murray manca il colpo e prende il campanellino sbagliato o che, a metà circa di “Spirits”, Ayler ha un’esitazione – è come se pensasse – deve suonare quella nota – quella lì – quella che tutti ci aspettiamo, ed invece no, ne suona un’altra, inattesa, straniera, ma dopo che l’ha suonata capisci che quella nota, quella, era necessaria.
Perché la libertà, come il gioco, è una cosa seria: ha le sue regole, i suoi significati, le sue strutture, anche se non le capisci, perché le sbarre della nostra prigione non sono le regole, la sbarre sono la logica.
Hai voglia a dire, “frasi sghembe”, “costrutti atonali”, “poliritmie tribali”, “urlo sommesso”, più cerchi di spiegarlo e peggio è. Dici “è free jazz”, ma free jazz non vuol dire un cazzo.
E’ come, ecco, te la ricordi quella siepe che “da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude” che non sta a Recanati, ma nella testa di ognuno di noi? Tutta l’arte del ‘900 è seduta lì dietro (compreso il cosiddetto “free jazz” e Ornette Coleman e Cecil Taylor e Eric Dolphy eccetera) ad immaginarsi i sovrumani silenzi e la profondissima quiete, a cercare di descrivere cosa c’è al di là, quando arriva Albert Ayler e ci si butta oltre, a quella siepe, con tutte le scarpe.
Lo so: la recensione sta venendo lunga. Ma tu sei libero: se è lunga, non leggerla.
Perché io devo dirti ancora un sacco di cose. Devo dirti che Ayler non era un jazzista come gli altri. Aveva iniziato col padre in chiesa, poi aveva suonato R&B e blues con un certo Little Walter, poi era entrato nell’esercito e si era appassionato alle marce militari, che dovette trasferirsi in Svezia per poter cominciare a lavorare seriamente (troppo diverso e strano per l’ambiente musicale americano), che tornato in America incise questo “Spiritual Unity” e, siccome non sapevano come definirlo, Ayler disse: “chiamalo Energy music”. E incise altra roba incredibile: “The Hilversum Session” con Don Cherry, “Bells”, “Spirits Rejoice”, sempre più rumorosi e selvaggi, con gruppi più numerosi, anche con suo fratello Donald, “Love Cry”, dove si sente pure una cornamusa.
E suonò al funerale di Coltrane, che fu uno dei pochi ad aver creduto in lui.
Poi incise cose stranissime come “New Grass”, che era R&B, o “Music is the Healing Force of the Universe” dove c’era anche Henry Vestine dei Canned Heat.
Poi suo fratello impazzì.
Dovrei dirti ancora della Esp-Disk, ”la casa discografica più pazza del mondo”, fondata da quel fuori di testa di Bernard Stolmann, avvocato con la fissa del free jazz e dell’esperanto (da qui il nome dell’etichetta), che aveva come slogan: “the artist alone decide what you will hear on their Esp-Disk”. Sulla quale incisero jazzisti indefinibili come Giuseppi Logan o Sun Ra, musicisti più o meno accademici come Alan Sondheim o Ran Blake, freakerie varie come i Pearls Before Swine o gli Holy Modal Rounders e tanti tanti altri. E due dischi incredibili come “Orgasm” dei Cromagnon e, soprattutto, “Sings” il disco di Patty Waters (ma di lei, forse, ti racconterò un’altra volta).
Dovrei dirti anche di Sunny Murray e di Gary Peacock, che non erano proprio gli ultimi arrivati, ma so che mi sono già dilungato troppo.
Allora ti dirò solo che mi sono chiesto tante volte cosa sia capitato ad Albert Ayler in quei venti giorni in cui sparì. Ti diranno che era un debole vessato dalle donne, che si riteneva responsabile della pazzia del fratello o tireranno fuori strane teorie complottiste.
Io non lo so. Io penso che stesse gnagnando con la sua vita.
Ciao Albert, grazie per avermi insegnato (o almeno ci hai provato) ad essere libero.
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