Per questa recensione sarebbero necessarie pagine e pagine – improponibile, mi son detto – poi ho pensato che questo disco incredibile e fondamentale non può mancare nel mondo DeBaser, per cui faremo di necessità virtù, Signore e Signori, e taglieremo corto. Anzi, la faremo molto corta e cercheremo principalmente di incuriosire chi ancora non fosse inciampato in queste folli registrazioni. (A proposito di Signore e Signori, ma dove sono le Signore nel DeBaserMondo?).
Cominciamo col dire che io questo disco a casa non lo posso mettere. Non è neppure questione di jazz o non jazz, è che Albert Ayler non era uno normale e la sua musica non è normale. Si tratta generalmente di una ‘cruda aggressione al jazz’ (nelle parole dei critici musicali d’epoca), assolutamente iconoclasta, con pochi sprazzi introspettivi immediatamente smentiti e controbattuti dalla furia degli strumenti, mescolata con divina intuizione ad una personalissima interpretazione di Ayler della musica New Orleans / dixieland degli anni ’20 (le bande di ottoni) ed alle più gioiose marcette militari in tono maggiore, motivetti religiosi, musica klezmer, elementari temi tradizionali, popolari e circensi: il tutto con un effetto assolutamente sconcertante e sinistro, assordante ed incontrovertibilmente free, però incazzato nero.
Sodale di quell’altro matto di Cecil Taylor, il sassofonista Albert Ayler si mise a fare free jazz dei più intransigenti senza traccia iniziale del background politico-culturale che avrebbe sempre più caratterizzato il movimento (Art Ensemble Of Chicago in primis), soprattutto perché il più delle volte sembrava un mentecatto e non certo un leader della riscossa nera in America. Furono solamente l’apprezzamento e la frequentazione di John Coltrane a fornirgli elementi di spiritualità generica e fratellanza universale a parziale copertura e giustificazione delle proprie incursioni musicali, ma a me la cosa non ha mai convinto: la ricerca musicale di ‘Trane è evidente ed è palesemente generata da un intimo percorso a livello personale, mentre Ayler mi sembra ‘semplicemente’, genialmente, infelicemente ed irrimediabilmente irridente e furioso. Con la vita in generale, con la propria in particolare: non lo so con certezza, anche se Albert fu protagonista di frequenti episodi di allucinazione ed è comunque evidente la sua violenta rivolta contro l’estremo clima religioso in cui la famiglia lo aveva cresciuto.
Il suo fraseggio è veloce (l’uomo sa suonare davvero bene) ma urticante, e si caratterizza per la scelta di spernacchiamenti e timbriche sovracute, fastidiosissime, come pure per l’assoluta noncuranza per la ritmica (è spesso fuori tempo): è urtante, è blasfemo, è ondeggiante e stonato; è mariachi, la sua musica sembra un’orchestrina messicana ubriaca e scordata, amplificata coi Marshall e passata nei distorsori, che suona la messa. Albert Ayler è selvaggio e senza controllo, e quando non è assordante è sghembo e squilibrato, e più di ogni altra cosa è assolutamente iconoclasta, senza concessioni, senza compromessi, altro che Ornette Coleman. Quando egli titola brani di rara violenza con riferimenti i più religiosi e spirituali, io sono sicuro di trovarmi davanti allo sbeffeggiamento, all’odio, alla disperazione e alla vendetta, altro che ‘Spiritual Unity’, ‘Infinite Spirit’ o ‘Our Prayer’.
Resta il fatto che – chissà come – è un musicista sopraffino, anche se non saprei dire quanto coerente e consapevole . Albert inizia infatti a suonare sax e oboe in modo serissimo, compiendo studi regolari di musica e suonando (più o meno dal 1949 al 1959) jazz tradizionale e musica bandistica, esattamente quella che destrutturerà qualche anno dopo in modo così violento. E’ probabilmente l’incontro con Cecil Taylor a cambiargli la vita, spingendolo ad esprimere (anche se non a risolvere) quella serie di nodi nel suo intimo che lo porteranno al suicidio a soli 36 anni, in circostanze mai chiarite e dopo aver infilato di tutto nel furore dei propri dischi, dal funky alle cornamuse.
Vediamo di arrivare al disco, testimonianza di una serie di concerti al Greenwich Village (1965) che rappresentano la summa inarrivabile dell’arte di Albert Ayler, il suo ‘Made In Japan’. Questa edizione in doppio CD è la seconda estensione dell’opera e racchiude definitivamente tutte le registrazioni rintracciate, e basta e avanza per le orecchie educate, ma alle mie non basta mai. Ci sono ben due contrabbassi qui, una batteria a larghi tratti assente ma quando c'è spacca tutto, due pazzi con violino e violoncello che hanno l’evidentemente incarico di scartavetrare i timpani e tutte le pernacchie del mondo, e soprattutto la suprema presa per il culo di tutte le canzoncine religiose e militari – istituzionali – che sono venute in mente al leader di questa geniale e scombiccherata formazione, che suona benissimo quattordici pezzi atrocemente cattivi, beffardi, il cui messaggio non dobbiamo assorbire appieno perché altrimenti andremmo a mettere le bombe al Parlamento come Guy Fawkes. Ascoltate ad esempio ‘Light In The Darkness’, undici minuti inqualificabili, e ditemi voi cosa si deve fare di questa musica che compie adesso 50 anni ed è ancora deliziosamente e tragicamente inascoltabile, solo un pelino più comprensibile (abbiamo avuto altre avanguardie incazzate, nel frattempo). Ah, siamo al settimo minuto e si sono incazzati davvero, la tromba è un elefante imbizzarrito e si sentono delle urla sotto (non credo sia il pubblico), poi Albert rientra in sincrono con le sue marcette dementi (ogni tanto ci piglia) e la follia è completa, come ascoltare due bands in contemporanea suonare generi diversi. Gli archi riprendono a scorticare e chissà che facce avranno avuto gli astanti, qualche minuto dopo si beccheranno una compilation di musica circense che sembra suonata dalle povere e tragiche Joy Divisions dei campi di concentramento nazisti. Pochi brani dopo o prima, indifferentemente, sembra di essere in mezzo ad una interminabile 'Sister Ray' e ad un tratto la musica apre al contrasto più evidente, un inno religioso cui tutti si uniscono di botto per sfasciarlo ben bene, senza soluzione di continuità e senza alcun compiacimento musicale. Il pubblico è ammutolito: ci credo. Cristo, poter essere stato lì.
Mi rivolgo anche a coloro, tra i ragazzi più giovani di me, che ascoltano i growls delle band di metal estremo, troppo spesso prive di arte e parte in un genere fin troppo facile da tirar su a tavolino (senza per questo voler generalizzare). Voi che sapete che la musica non è necessariamente un Rondò, che può e deve esprimere anche la rabbia la paura l’oscuro e la morte, venite a prestare un ascolto anche a questi scellerati, che cinquant’anni or sono vissero sulla propria pelle l’emarginazione, e il disagio e la diversità, e misero tutto dentro una musica coraggiosissima, di rottura totale, che parlava delle loro anime nere, urlo e bestemmia insieme ma anche rinascita in una nuova estetica. (Intanto la Albert Ayler Band, qui sotto, sembra tre televisori accesi insieme).
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