Nel panorama dei songwriter dell'ultimo decennio, Albert Niland occupa un posto davvero piccolo. Così piccolo che, alla fine, potremmo confonderlo con l'anonimato di chi si fa strada nel mondo della musica sottovoce, quasi senza pretese. Per passione.
Il percorso di Niland è, ad oggi, del tutto diverso rispetto a quello del suo ben più celebre conterraneo Damien Rice: un artista che, pur schivando a detta sua il successo e la notorietà, ha raggiunto e sedotto il grande pubblico. Suo malgrado.
Irlandese di Galway, Niland imbraccia la sua chitarra acustica con un cappello da elfo in testa. E' così che lo possiamo vedere in una delle poche, rare, fotografie che circolano sulla rete. Ed è così che appare sulla copertina del suo ultimo cd, uscito da pochi mesi: "A Night in Dublin".
"Dirty Day" è il suo disco di esordio, una sorta di ep ormai quasi introvabile: 12 tracce raffinate ed eleganti nella loro semplicità, quasi sorprendenti nella maestria di chi riesce a suonare il proprio strumento con vigore e gentilezza allo stesso tempo. La voce pare navigare a vista sulle note di sei corde di nylon e metallo pizzicate ora dolcemente, ora freneticamente, all'inseguimento della melodia; né bella, né brutta, perfetto complemento di un ensemble acustico di rara bellezza. E sono proprio i variegati e variopinti fingerpicking, gli slap, la batteria appena accennata, una sporadica fisarmonica (in "Sea Of Love"), il semplice battito delle mani, il filo conduttore di un album quasi fuori dal tempo, lontano dalle grossolane e semplicistiche catalogazioni in cui cerchiamo ogni volta di intrappolare l'estro di chi sa toccare le nostre, di corde.
"Dirty Day" è un album particolare, concepito e creato da chi fa del suono ovattato e gentile della chitarra classica lo sfondo di 12 storie molto semplici, quasi sussurrate. Da ascoltare pigramente, come sottofondo di una serata di chiacchiere, accompagnate da diverse pinte di birra, proprio come se fossimo seduti ad un tavolo di un affollato Brazen Head, a Dublino. Oppure come colonna sonora di un viaggio, ad accompagnare chilometri che fuggono via veloci, fra pensieri fugaci, aspettative, paesaggi e città da attraversare, cieli stranieri sotto cui dormire.
A me le recensioni track-by-track fanno venire l'ansia e quindi eviterò di dirvi ciò che penso di ogni singola canzone. Mi limito a rivelarvi che "Underground", "Albine Ape In Barcelona Zoo" e "Spanish Heat" sono le tracce a cui sono più legato. Nella prima il semplice fischiettare di Niland nella parte conclusiva, sembra portarvi fisicamente il buon Albert proprio là dove lo state ascoltando. Come se suonasse accanto a voi, nella stessa stanza.
Mi fermo qui. Troppo spesso alcuni dischi sono allacciati a doppio filo a dei momenti particolari della nostra vita e questo condiziona inevitabilmente i nostri gusti in modo troppo soggettivo. Vi invito piuttosto a cercarlo e a dargli un ascolto, per quanto fugace, se amate il genere. Forse ne varrà la pena.
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