Burri autore classico.

Con le sue plastiche degli anni sessanta viene rivoluzionata completamente l'idea di arte.

Apparentemente ci si trova dinanzi ad uno spericolato sperimentalismo, che distrugge qualsiasi idea di pittura più o meno convenzionale a favore di un'espressione estemporanea non meditata, ma "gettata" sulla tela, forte dell'insegnamento di un Pollock. Viene profetizzato e realizzato un '68 artistico che sembra voler spazzare via tutto ciò che è stato detto, pensato e realizzato prima. Una specie di free jazz dell'arte.

Ma non è così, o non solo così.

Burri è un artista classico la cui parabola procede perfettamente in sintonia con un altro grande della sua terra, a lui vicinissimo anche geograficamente, Piero della Francesca. Come Piero anche Burri dipinge l'essenziale. Elimina qualsiasi idea di retorica, orpello, fronzolo, accademia, virtuosismo, scendendo implacabilmente e coraggiosamente in quello che potrebbe essere definito uno spietato esistenzialismo plastico. Un vero viaggio al termine della notte.

Le plastiche, così come i cretti, fotografano, in maniera iperrealistica, l'anima del ‘900. Tutto viene decostruito per essere poi ricomposto alla luce di ciò che l'occhio umano non aveva ancora mai visto. La guerra, quella mondiale, i campi di sterminio, il furore ideologico. Burri conosce bene queste realtà per averle vissute in prima persona, non tanto come testimone, ma come protagonista. Il suo primo quadro fu dipinto in un campo di concentramento, nel quale era prigioniero.  E così, difronte a tali sconvolgimenti, l'artista sente che le dimensioni conosciute fino ad oggi non sono più sufficienti, occorre andare oltre, dentro e oltre la materia.

Inizia un viaggio simile a quello intrapreso dal suo amato Piero della Francesca attraverso le terre poco conosciute della prospettiva. In maniera rivoluzionaria, scientifica, poetica. Cannocchiale e microscopio per vedere prima e oltre. Entrambi innamorati della purezza dei colori. L'azzurro per Piero, colore dell'essenza e della metafisica per antonomasia. Il rosso per Alberto. Il sangue, l'essenza del dolore, della vita.

E poi gli squarci, per vedere cosa c'è dopo. Dopo il dolore, dopo il colore, dopo la morte. Disperatamente. Fino a raggiungere l'ermetismo nero degli ultimi dipinti, quelli dei Seccatoi di Città di Castello, dove la parola morte viene materialmente incisa (verrebbe da dire, e neanche metaforicamente, a chiare lettere) nelle tele.

Ma dietro l'urlo craterico delle plastiche rosse, come non vedere l'armonia della linea che ancora, quasi disperatamente, in un ultimo anelito di salvezza, si nutre delle Madonne del Parto e delle colline altotiberine.

Dell'humus  di una religione umanistica, di cui Burri fu un vero credente e fondatore.

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