Nonostante mi reputi un “giramondo” nei confronti della musica, se proprio devo essere sincero, prima di trovarmi a sentire gli Alchemist non avevo mai ascoltato un gruppo proveniente dall’Australia e, se queste sono le premesse allora mi devo esser perso davvero tanta buona musica.
Ma chi sono gli Alchemist? Questi cinque ragazzi di Camberra, rappresentano un eccellente formazione di avant-garde/progressive metal e pur essendo relativamente giovani, i nostri hanno già alle spalle svariati anni di esperienza alle spalle (la band s’è formata nel 1987) e tutto questo si sente, eccome: grazie proprio all’ esperienza infatti, in questo “Organasm”, i nostri raggiungono una maturità artistica davvero poco comune, proponendoci un disco ricco di sfumature e colori e capace di spaziare con una semplicità strabiliante da momenti prettamente progressivi ad altri più vicini ad un avant-garde fortemente influenzato dal death per le ritmiche e alle volte anche dal black, specialmente per quanto riguarda l’impostazione vocale di Adam Agius, che durante tutto il platter alterna clean-vocals a screams e growls.
Formato da 10 canzoni, di cui una strumentale, questo “Organasm” vive numerosissimi momenti felici e presenta davvero poche pecche che davvero non influiscono sul voto finale, grazie ad una ricchezza di contenuti musicali decisamente di livello superiore alla media.
L’apertura viene affidata alla futuristica “Austral Spectrum”, traccia atmosferica che subito mette in evidenza le capacità tecniche della band, che riescono ad essere virtuosi senza per questo strafare: apprezzabili le linee di chitarra che risultano essere, assieme alla camaleontica voce del già citato Adam (in questo pezzo con scream vocals accostabili a quelle già sentite dal collega Dani dei cradle of filth), le vere protagoniste del pezzo. La seguente “The Bio Approach”, prima parte del trittico “Evolution”, delinea invece quello che è il sound della band, risultando un mix di progressive, death, crossover e quant’altro: linee melodiche ancora una volta sperimentali, quasi Arcturussiane nell’approccio, travolgeranno chiunque sia all’ ascolto di questo lavoro in un turbine d’emozioni che vi lascerà senza fiato.
“Rampant Micro Life” è invece considerabile un pò il punto debole dell’album, in quanto, pur proseguendo il discorso musicale intrapreso dalla band nel precedente pezzo non riesce a decollare nella prima parte (un poco floppia). Altro punto a sfavore della canzone una dilatazione di tempi e di riffs davvero eccessiva e ridondante. Si continua con “Warring Tribes-Eventual Demise”, ultimo pezzo facente parte di “Evolution”, che si “stacca dal coro”, presentandosi come song dall’impatto rock, accompagnata da vocals thrash, formando un variopinto quadro con tonalità contrastanti ma che ha come risultato finale un pezzo davvero d’ottima fattura. Nulla di speciale “Single Sided”, pezzo abbastanza veloce e che più rimanda a sonorità death sperimentale: pur non essendo assolutamente una canzone brutta, non riesce ad entrare nel cuore, anche se il lavoro tastieristico, davvero encomiabile, alza leggermente il tiro.
La coppia “Surreality” “New Beginning” torna a muoversi sulle coordinate dei primi due episodi, risultando dunque piacevole e colpendo per la linearità dei pezzi e per la gradevolezza a livello musicale. I successivi 5 minuti e 30 secondi sono quelli che più mi hanno stupito dell’album: aperto dal cinguettio di uccelli e da una testiera che piano piano fa capolino, “Tide In, Mind Out”, finisce per essere, grazie al suo mood velato di malinconia, il vero piatto forte dell’Lp: verrete dunque trasportati in una dimensione musicale davvero interessante, fatta di eleganza e rabbia, dolcezza e malinconia. Questa volta a nessuno va una lode, perché la band cooperando riesce a creare un pezzo che scusatemi l’ esagerazione ho trovato perfetto: riffs e soli di chitarra ineccepibili, una sezione ritmica ben presente ma non eccessivamente invasiva e una voce capace di grande duttilità e potenza, riescono davvero nel compito di far elevare questo buon disco a qualche cosa di più, facendo per altro dimenticare quegli episodi meno riusciti.
Buono lo strumentale “Eclictic”, che dopo una partenza dal flavour quasi tribale, tramuta in una canzone prima progressive, poi elettronica; poco più di cinque minuti bastano dunque a questa traccia a compiere il suo lavoro in maniera adeguata e senza abbassare il livello del cd. Purtroppo la chiusura non è di quelle che mi aspettavo: dopo infatti due brani atmosferici come quelli appena passati si cade un po’ nella confusione con “Escape From The Black Hole”, pezzo che non colpisce nonostante l’originalità di alcune soluzioni melodiche.
Un lavoro dunque, che pur presentando alcune pecche, come (spero) si evince dalla recensione, vive momenti davvero felici e di grande musica, che spero con tutto me stesso possa appassionare voi, tanto quanto ha appassionato me.
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