Il salone è inaspettatamente affollato. Eppure a guardarlo non è poi chissà quanto bello. Pennellate un po' incerte, magari inferte sulla tela in maniera distratta, come delle coltellate deboli e stanche. I colori paradossalmente non sono freddi. C'è neve, tanta neve che si mescola con macchie scure. I colori sono morti. Anche a dispetto del titolo dell'opera. Strada della vita.

Una natura umana defunta, che riesce ad attirare gli sguardi dei visitatori. Nonostante brulichi di curiosi, il salone è freddo. Se ti impegni nell'acuire l'immaginazione quel quadro colmo di macchie inanimate sembra esprimersi. Lo sguardo spento, quasi sospettoso di una leonessa armata, sembra invitarti all'attenzione. L'altra macchia avvolta in una tuta grigia scruta l'orizzonte. Forse è un uomo. Un sinistro nuvolone nero stritola il cielo partorendo sbavature dello stesso colore che si immergono nella neve. Sono pesanti autocarri di ferro.

Il cielo, sembra incollato lì per caso, come se l'autore lo avesse dimenticato nel tentativo di una elaborazione cromatica. Le macchie nella neve sono quelle più dettagliate. Incise con precisione, con attenzione e delicatezza, come se intorno avvertisse qualche sospettoso occhio scrutatore. Dipinte quasi senza farsene accorgere. E i tedeschi non se ne dovevano accorgere...

Avverti una lingua fredda che ghermisce le tue suole appoggiate sul pavimento di marmo. Sembra si cammini a piedi velati da calze sottili. Insufficienti a proteggerti da temperature infernali. Sotto lo zero.

Nell'inverno del 1941, nel pieno dell'Unternehmen Barbarossa, Leningrado era già una città sotto assedio. L'8 settembre, le truppe naziste avanzarono verso la capitale del nord, allo scopo di cancellarla dalle cartine geografiche. Ma quell'inverno, la città di Lenin fu martoriata da eventi difficili da immaginare. Il silenzio ferroso veniva interrotto dai bombardamenti ciclici dei cannoni pesanti tedeschi: la mattina dalle 8 alle 9, dalle 11 alle 12 e il pomeriggio dalle 17 alle 18 e dalle 20 alle 22. Le pause erano coperte dagli Stukas che si impegnavano a colpire i depositi di carburante, i silos alimentari e le linee ferroviarie. Con terrificante precisione, in quegli archi temporali, quotidianamente piovevano granate. Su molti muri della città campeggiava la scritta "Grazhdane! Opasna eta storona! - Cittadini! Questo lato è pericoloso!" che invitava, appunto le persone a non avvicinarsi in quanto potenzialmente esposti all'artiglieria nemica.

Presto iniziò la dura stagione dei razionamenti. Elettricità, acqua, linee telefoniche. Le tessere annonarie garantivano ai soldati 250 grammi di pane al giorno e ai civili 125. A persona. Le morti per inedia arbitraria furono migliaia. Dimenticati sotto cumuli di neve. Molti furono privati di sepoltura perché erano morti anche i becchini. Madri si lasciavano morire per nutrire i figli. Disperati furti di tessere. Molti esasperati mangiarono cadaveri. Nonostante tutto però, Leningrado viveva. Con sforzi inimmaginabili ma viveva. Nelle fabbriche, officine, negozi, uffici, scuole ed ospedali. Quelli rimasti. Dimitrij Sostakovic compose la VII Sinfonia "Leningrado" sotto il fragore delle bombe. Fu eseguita la prima volta nell'agosto del 1942 anche se i componenti dell'orchestra di sei mesi prima erano quasi tutti spariti al fronte.

L'unica salvezza, disperata, per la città era il lago Ladoga esteso a nord-est. Bisognava sfruttarlo per i rifornimenti, al riparo, per quanto possibile, dagli implacabili attacchi tedeschi. Fu così che nacque la celebre "Strada della vita", con il contributo di tutti. Si attese fino a novembre del 1942 quando le temperature consentivano al lago di ghiacciarsi. Membri del Comitato Militare, con l'ausilio di pescatori del luogo, sondarono le aree dove il ghiaccio fosse più consistente lasciando segni di riconoscimento alla stregua di Pollicino. A metà novembre lo spessore, abbastanza esile di 17-18 cm, difficilmente poteva sostenere il peso di un cavallo carico di provviste. Il Generale Inverno si mosse a compassione irrigidendo ulteriormente le temperature in pochi giorni e convogliando venti gelidi verso la zona. 28 gradi sottozero. I lavori durarono una settimana, sotto il peso delle bombe. Il 20 novembre del 1942 le prime slitte trainate da cavalli percorsero la strada lastricata da blocchi di ghiaccio da Osinovets a Kabona per poi continuare oltre il fronte tedesco da Tivkin a Zaborje. Oltre 40 km. Poi da lì verso Leningrado su strada ferrata per altri 320 km. Come se non bastasse, anche in questa occasione non tutto andò per il verso giusto. Capitava che il ghiaccio risultasse più tenero, creando voragini sotto i passi impauriti della gente. Furono in tanti inghiottiti da spaccature improvvise. Il 24 dicembre il ghiaccio più spesso, quasi un metro, e una temperatura a 32 gradi sottozero permise la percorrenza anche ai mezzi a motore. Si può immaginare la gente che piangeva per l'emozione quando vedeva apparire, sui banchi degli esercizi alimentari, 300 grammi di pane e qualche pezzo di carne. Per quattro mesi giunsero a Leningrado 2000 tonnellate giornaliere di ogni tipo di rifornimento e furono evacuati 1.700.000 cittadini stremati attraverso camion e cingolati leggeri dell'Armata Rossa.

Il successivo scioglimento dei ghiacci nell'aprile del 1943, permise l'attraversamento navale, moltiplicando le provviste a 150.000 tonnellate giornaliere. Per gli stenti però, si continuava a morire. Si perdeva la vita anche per un respiro troppo profondo o un battito accelerato. Arrivò anche il tempo dell'offensiva sovietica che riuscì a resistere all'occludersi della tenaglia nazista fino all'ultimo contrattacco sferrato il 13 gennaio del 1944, sotto l'energia incredibile dei reparti comandati dal Maresciallo Zukov. I tedeschi furono costretti alla ritirata il 27, giorno della liberazione della città dopo quasi 900 giorni di assedio!

Tra civili e militari ci furono circa 2.400.000 morti. Leningrado fu premiata come città eroina della Grande Guerra Patriottica.

Gli occhi infuocati fissano ancora la tela mentre una lacrima volontaria scende a confortarli. Il pavimento sembra essersi riscaldato e il salone è ormai vuoto. Il respiro è nervoso e a tratti viene spezzato da un corposo colpo di tosse. La donna forse ha abbassato lo sguardo e i colori sembrano ravvivati. Quel quadro non lo conosce nessuno ma basta guardarlo un attimo per sentirlo parlare. Un sorriso forzato. Una smorfia malcelata di dolore. Un po' di sangue rimasto ripercorre quelle mani ossute. Un pizzico di vigore. Effimero. Il tempo necessario per levare verso il cielo il pugno sinistro e stringere i denti.

Ben stretti.

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