L'idea di Alessandra di recensire un suo lavoro è simpatica ma StefanoHab ha ragione. Sebbene tutti quelli che stiano in una situazione di conflitto di interessi protestino che non è vero, anche in questo caso i ruoli devono essere distinti. Niente paura! Sono qua io, un recensore in carne ed ossa, con tanto di licenza di uccidere. Vado? Allora vado e affondo.
L’Africa non cancella i suoi stereotipi facilmente. Sembrava che i vecchi clichés sui dittatori corrotti e sul caos politico appartenessero al passato quando, tempo fa, americani e francesi dovettero intervenire per salvare i loro connazionali dagli ennesimi scoppi di violenza. Nulla di nuovo, quindi. Eccetto. . . eccetto che i canti e i ritmi africani promettono ora di aggiungersi ai raccolti record degli ultimi anni per risollevare le sorti del continente. Il miracolo avverrà grazie ai dividendi delle campionature di questo lavoro di Alessandra Celletti, destinato ad un successo di critica e di pubblico a livello internazionale. Poco importa che Alessandra stia ancora cercando un distributore per il cd: stando a Tito Livio, anche Roma cominciò con quattro case. E l’Africa non sarà la sola a trarre vantaggio dalle vendite di questo cd: mezzo mondo, in una guisa o un’ altra, è presente qui, a prestare i propri colori per questo primo grande affresco di una pianista classica che, accantonati gli spartiti, ha deciso di dedicarsi per un po' alla musica elettronica. Con la stessa sensibilità, la stessa vivacità, la stessa freschezza che hanno reso memorabili le sue interpretazioni di Janacek e di Debussy.
“Overground”, ispirato agli esperimenti nucleari di Mururoa, invita alla riflessione sull’uso distruttivo della scienza, sul trattamento sprezzante ed offensivo che l’ambiente subisce da parte dell’ uomo. Ci sono paradisi tropicali che ci permettiamo di tramutare in pattumiere nucleari: questo è il senso dell’inclusione di una poesia di Gregory Corso sulla bomba, un avvertimento che sta alla musica di questo cd come i consigli per gli acquisti al programma che sponsorizzano: brevi, ma indispensabili. Piuttosto che con un poema sinfonico, Alessandra accende la fantasia con vignette brevi e coloratissime, istantanee sonore che durano quanto basta a rendere l’ idea: un paradiso in terra, la vita semplice dei nativi, la desolazione di una distruzione insensata. E, a mo’ di prefazione, un’arguta interpretazione di un'altra poesia sulla bomba, questa volta di Allen Ginsberg. Come in un gioco di carte, le immagini si rincorrono sovrapponendosi, icone rappresentative di valori, di paesaggi, di azioni e di sentimenti. La voce di una soprano dà una dignità inaspettata a un lavoro composito che proprio il rifiuto di adeguarsi ad estetiche contigue già codificate - musique concrète, exotica, trance, prog rock, sperimentazione, musica a tema, elettronica, ambient, easy listening - rende stimolante. Una sorpresa, questa di Alessandra, che fu svelata in anteprima in una birreria di Palestrina ricavata nei sottopassi del Tempio della Fortuna Primigenia. Quel concerto, frammentario ma ambizioso (commento di un autoctono tra un würstel e un boccale: “Meglio il rock che queste pippe mentali” ), cristallizza qui senza sbavature, preciso, immediato, inventivo. Preciso, mai pedante. Immediato, niente barocchismi. Inventivo, mai scontato. E lineare, ma imprevedibile: una musica che gode della libertà di andare dove le pare, senza sfidare territori sconosciuti ma senza cader preda di correnti o di modismi stereotipati.
Questo cd è una dichiarazione d’indipendenza e una promessa per l’avvenire. Indipendenza? Avvenire? Campionature etniche? Ma non dicevamo che dall’Africa non c’era nulla di nuovo? Nuovo, di Alessandra, è il trattamento dei campioni - utilizzati come parole del discorso musicale piuttosto che, come usa oggi, come punteggiatura ripetitiva o base trapanante. Ma di questo Alessandra neanche si rende conto: della trance a mala pena conosce un brano dei Deep Forest perché scelto a sigla di una trasmissione televisiva; l’easy listening e l’ exotica neanche sa cosa siano. Anzi - seppure “ Overground” abbia un’ identità singolare nel panorama della musica elettronica, è notabile come Alessandra abbia colto, pur attraverso la propria irrequieta personalità, lo zeitgeist. Le coordinate dello spirito del tempo - di adesso proprio - sono:
1) il rock è morto, tanto è vero che figura nella nostra vita o come fenomeno teatrale globale (portavoci gli U2, i Rolling Stones e gli altri, numerosi integralisti che ancora gli riconoscono una missione o vi scorgono una ribellione verso l’ autorità) o come nostalgia rassicurante, porto sicuro nella tempesta (Oasis, Arctic Monkeys, The Strokes);
2) il progetto del villaggio globale è in avanzatissima fase di realizzazione, con contaminazioni etniche presenti nelle musiche di tutti i generi,
3) il futuro sta nel pop - in un genere, cioè, che seduce piuttosto che conquistare, che fa leva su melodia e sentimenti privati piuttosto che su messaggio e protesta pubblica.
Inavvertitamente, Alessandra Celletti ha scoperto una nuova possibilità: una musica informata a tutto questo, ma con un cuore classico. In nuce, “Overground” ne fornisce già le direttive: - rilievo dei timbri piuttosto che dell’architettura, iniziando quindi una fase contraria a quella della recente musica colta contemporanea, dominata da un minimalismo dalle geometrie troppo definite, - eliminazione della ripetitività per dar spazio all’ inventiva, all’attimo, al personale, all’unicum, una musica in cui ogni fenomeno sonoro vale per sé, non come parte di una serie o di una sequenza, - una sana collaborazione tra strumenti classici e strumenti elettronici, in grado di far scendere la musica classica dal ghetto del suo empireo e in grado di canonizzare computer e campioni come strumenti di poesia, promuovendoli dall’ attuale limbo di macchine da ballo o da sballo. Strumenti di poesia, ho detto. Attrezzi per un’espressione cosciente e compiuta, piuttosto che mitragliatrici in grado di trafiggere ogni battuta con lo stesso proiettile sonoro ad nauseam, - valorizzazione della preparazione classica che, dando la possibilità di rispettare le piccole regole, permette di rompere quelle grandi, prima fra tutte lo schema strofa-ritornello-strofa. “Overground” scorre leggero, e “In The Wind” si avvicina al singolo di successo. Non succederà mai? Cose più strane si sono viste. . . . “O Superman” di Laurie Anderson è un precedente calzante, - appropriazione e metabolizzazione di linguaggi diversi e, perché no, anche degli slang in voga per un esperanto musicale che possa esser compreso dal maggior numero di persone e che abbia la capacità di essere caratterizzato dal momento storico che lo ha prodotto.
Proprio questa universalità viene negata dall'inserimento delle due poesie sulla bomba, lette in inglese. D’altro canto, questi testi mettono in risalto i parametri temporali dell’operazione di Alessandra, evocando la rivoluzione beat e l’importanza che la gioventù ha acquisito da allora nell’ambito sociale, foriera sempre di fermenti e di trasformazioni, coscienza collettiva e giudice implacabile delle decisioni a volte assurde - gli esperimenti nucleari di Mururoa una di queste - cui il mondo adulto perviene. Ad un commento sui fatti di Mururoa Alessandra stava pensando da tempo - e la decisione di avvicinarsi alla musica elettronica è maturata dall’ avvertita impossibilità di servirsi solo di un pianoforte per realizzarlo. Non è questione di ambizione: Alessandra non si è proposta di raggiungere alcun obiettivo a lunga scadenza. Né è questione di saturazione con la musica classica, visto che il suo successivo cd è stato un’interpretazione delle “Metamorfosi” di Philip Glass. E’ che la creatività di questo tempo, che vuole articolare i sentimenti di questo tempo, non può che farlo con gli strumenti di questo tempo - primo fra tutti il computer. Che, al contrario di quel che si potrebbe pensare, mette in risalto la musicalità dell’intenzione dell’artista, permettendogli di dare forma e dettaglio all’impasto sonoro come mai prima era stato possibile, in quanto lo abilita ad essere al tempo stesso direttore d’orchestra e singolo esecutore. E il risultato è un lavoro arioso, di lettura immediata ma che ascolti ripetuti non privano di un fascino diretto e genuino, familiare eppure esotico. Anzi: abituando l’orecchio alla sua logica gentilmente idiosincratica, se ne assapora più compiutamente il percorso. Come una facciata di Andrea Palladio rivela la pianta interna della chiesa, così “Overground” ripresenta schiettamente vent’anni di musica sintetica. Si costeggiano le psichedelie dei Pink Floyd. Ci si addentra nei deserti elettronici marcati nella seconda metà degli anni ‘70 da Vangelis in album ormai estinti (“See you later”, per citarne uno), solitudini radicalizzate ora da Geir Janssen e da William Basinski. Il risalto delle percussioni cita i tanti artisti minori, pubblicati da etichette come la Lumina, la Private e la Hearts of Space, che hanno dato vita al corpus della produzione sintetica e che hanno sempre trattato le presenze etniche con un interesse e un rispetto lodevoli.
L'equilibrio degli impasti non svela che “Overground” è la prima esperienza elettronica delle Celletti, ma da subito la colloca sulla scena elettronica in posizione promettente. L’orchestrazione, né ascetica né ridondante, è progettata così che ogni voce aiuti a portare avanti la melodia - melodia che suona chiara nelle orecchie dell’ascoltatore anche se occasionalmente nessuno strumento ne sta suonando una. “Overground” è una storia con testo e accompagnamento musicale, un po’ come quelle che la Windham Hill ha pubblicato per i bambini, e la sua presentazione nel quartier generale della rivistina si musica esoterica "Deep Listenings", in un luminoso pomeriggio di ottobre, ha convinto molti della validità della proposta e dell’onestà di questo progetto dalla trasparenza esemplare, al di là di protagonismo e di mode. Per appena un anno e mezzo di lavoro, “Overground” rappresenta un raccolto lusinghiero, e costituisce la prova che per trovare musiche inedite non occorre diventare supereroi: basta mettersi sulle spalle una preparazione musicale adeguata e saper ascoltare la voce del nuovo. Un sentiero personale si snoderà tra le pietre miliari del già noto e s’andrà di quel po’ più avanti. I nuovi leaders africani stanno facendo la stessa cosa a casa loro: evitano gli stereotipi che ancora condannano il continente ad una condizione di servilismo e dipendenza e trovano nuove definizioni, nuove risorse, nuove possibilità. Per lanciarsi a livello internazionale. Le premesse ci sono. Ognuno forgia il proprio futuro. Alessandra lo sa.
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