Quando si è bambini, e si conosce poco della vita, ci si "innamora di tutto".

E' questo il bello, non ci sono tanti filtri.

Il cervello è come una spugna a forma di cuore, si vuole solo conoscere, innamorarsi, entusiasmarsi, di tutto il possibile.

Per darvi un'idea, pensate che mia figlia non vede l'ora di mettersi, fra qualche giorno, l'apparecchio per i denti...

Tempo fà è stata perfino entusiata (salvo poi pentirsene) per aver messo il gesso ad una gamba (sic).

Perth, un ragazzino amico di un tipo bizzarro per cui la musica era tutto, e da un bel giorno anche mio, era entusiasta di indossare, come un destino, una giacca larga il doppio di lui, dentro la quale sarebbe cresciuto, e che un bel giorno lo avrebbe aiutato, ma anche un pò costretto, a capire l'arrivo dell'età adulta.

Ma questa è un'altra storia, anzi, è la storia..

Insomma, si può essere "bambini" in tanti modi e verso tante cose, ed a tutte le età.

Di solito ci si entusiasma quando serve combustibile per la corsa che tenta di portare il mondo reale verso il mondo sognato, anche se non ne si conosce ancora il volto, come quando si è bambini davvero.

Quando il combustibile sta per finire, e non hai più la curiosità infantile a spingerti, la corsa finisce, e le distanze rimangono incolmabili e definitive.

A quel punto quel pò di combustibile rimasto lo si puo comuqnue ancora usare per tentare almeno di illuminarlo meglio, di capirlo e di accettarlo, quel mondo reale.

Mi dovete allora perdonare se personalmente sono stato "bambino", e non me ne pento, nei confronti di questo Castelli di Rabbia, il primo libro di Alessandro Baricco, detto "il piacione copione" da tanti suoi detrattori.

E lo ho sentito mio, del bambino vero ormai in buona parte andato, come di quello adulto, residenti in me.

Che dire, oltre che la storia di Perth, ho ancora negli occhi, e nelle orecchie, vari episodi di questo suo primo romanzo, percorso da un unico principale "motivo".

Così, ecco le due fanfare che si vengono incontro lungo la strada principale del paese immaginario di Quinnipak, in preda all'entusiamo della gente, giusto per incontrasi nel centro, magicamente, in un definitivo ed agognato esplosivo abbraccio musicale.

Così, in un momento unico ed indimenticabile, atteso un anno intero.

Un crocevia magico di destini in processione.

Ed il suonatore di trombone (o qualcosa del genere) che ne muore per l'emozione giusto un attimo prima che il tutto si realizzi.

Il geniale architetto Hector Horeau che vede buttato giù il suo meraviglioso palazzo di cristallo, appena un attimo prima che diventi realtà, dall'invidia dei finanziatori verso chi crede nei sogni.

Il romanzo, pur nella sua varietà e molteplicità di storie (raccontate con un citazionismo mai fine a se stesso e mai compiaciuto, come invece Baricco fa ultimamente in maniera inesorabile), parla sempre e soltanto di una sola cosa.

La Rabbia contro il destino di tanti sogni che, come castelli di sabbia (da qui il titolo), vengono buttai giù dal mare, spesso cieco, che è la vita.

Buzzati, Marquez, Celine, ... George Berkeley (per l'Idealismo onnipresente nei suoi primi romanzi) .... e miei acufeni, stanno là a fare da padrini, rispettivamente del romanzo di Baricco e di questa mia "recensione".

Stanotte, mentre ascoltavo il mio orecchio sinistro che sibilava, mi è tornato in mente il personaggio di Pekisch (spero si scriva così..), il musicista che vedeva e sentiva la musica ovunque, amico di un ragazzino, che costruiva strumenti, come l'"umanofono", inimmaginabili a tutti gli altri essere umani.

Che credeva in un Dio musicista.

Che un bel giorno raggiunge la morte alla fine di un lungo crescendo di melodie che si rincorrono nelle sue orecchie, solo per lui, come per me i miei acufeni, con nessuno nel mondo reale a suonarle davvero, musica assolutamente privata.

Dormi in pace, Pekisch.

Che "la terra ti sia lieve, come tu sei stato per lei".

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