Li chiamiamo "mattoni", "mappazzi", "mappazzoni". A volte, molto più prosaicamente, "palle al cazzo" o "due maroni così".
Sono i libri interminabili, quelli che non ricordi quando li hai iniziati e ormai cominci a dubitare che riuscirai mai a finirli.
"Troppa umana speranza", opera prima del giovane Alessandro Mari, è un mattone. Non che sia particolarmente lungo o "difficile". E' solo che mi sembra di essere bloccato a pagina 400 da più o meno 5 anni.
Ovviamente non ho il coraggio di arrendermi, di abbandonarlo al suo destino e di lasciarlo incompiuto. E così me lo sto portando ovunque: al bagno mentre faccio la pupù, in cucina mentre faccio il ragù, sulla metro mentre vado su e giù.
Ho cominciato a leggerlo perchè il suo autore è delle mie parti e perchè alcune vicende narrate nel romanzo sono ambientate a Sacconago, un paesotto in provincia di Varese che ben conosco.
Le aspettative erano forti.
Duole ammetterlo, ma la delusione lo è stata altrettanto.
Intendiamoci: non tutto è da buttare. Perchè sebbene richieda un (bel) po' di pazienza, alla fine il libro cattura e riesce a creare una sincera empatia tra lettore e (non tutti) i personaggi. Capita soprattutto con Colombino: classico caso di "scemo del villaggio" dal cuore puro e dall'animo nobile, che per amore decide di intraprendere un folle pellegrinaggio in compagnia del fidato asino Astolfo per andare a Roma a chiedere udienza al Papa. Ma anche con Leda, giovane imprigionata in un convento per volontà di uno zio crudele, che viene assoldata come spia da una strana organizzazione segreta.
Il vero problema, semmai, si pone quando l'autore insegue velleità da romanzo storico e mescola le vite dei protagonisti con le vicende del Risorgimento italiano. Perchè è allora che il romanzo proprio non riesce a tenere legato a sè il lettore: i fatti storici non si legano a sufficienza con le vicende dei personaggi e lasciano la sensazione di essere "posticci".
Come se ciò non bastasse, Mari cincischia spesso e volentieri in una prosa ibrida, che mescola parlato modernissimo e lessico datato, si trastulla in descrizioni spesso del tutto superflue, il più delle volte noiose, che fanno solo venire una gran voglia di saltare righe su righe nella speranza che prima o poi succeda qualcosa.
Più o meno ogni capitolo segue lo stesso schema narrativo: dapprima un'istantanea della situazione in cui si trova il personaggio nel presente, quindi un lungo flashback dei fatti che lo hanno condotto in quella condizione. Il che non sarebbe neppure male, ma alla lunga il tutto risulta stucchevole, prevedibile. Talvolta addirittura irritante.
Non so. E' come se l'autore, troppo preso dal dimostrare al mondo quanto possa essere bravo a scrivere, avesse perso di vista quello che dovrebbe essere lo scopo principale di un romanzo: raccontare.
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