Si fa presto a dire che si può applicare al "Bello" la categoria dell'oggettività. Che esiste una presunta soglia oltre la quale chiunque può provare piacere contemplando un'opera d'arte. Ricordo quando qualche anno fa vidi "A Proposito di Schmit", celebrato film di quell'Alexander Payne che avevo imparato ad amare per Sideways: In Viaggio Con Jack. Ebbene, un buon Jack Nicholson (uno dei miei attori favoriti), incastonato in un film senza dubbio ben diretto, con un'ottima sceneggiatura e qualche trovata originale: tecnicamente, niente da dire. Però sfugge un punto cruciale: che poteva fregargliene all'eccitato sbarbatello in piena esplosione ormonale di un film sulla crisi della terza età? Zero immedesimazione, zero emozione: rimandato a settembre (un po' come me in seconda liceo). Con questo non voglio trincerarmi dietro la latina saggezza del trito "de gustibus", né fare un'apologia penso già vista di ogni corrente di pensiero relativista: voglio semplicemente dire che nella vita capita a tutti di leggere un libro, vedere un film o ascoltare una canzone che è in qualche modo il suo libro, il suo film, la sua canzone. Insomma, si è in una disposizione d'animo per la quale non semplicemente ci s'immedesima, ma ci si immerge proprio nell'opera, la si assimila universalmente, la si interiorizza creando un indissolubile sincretismo tra autore, protagonista e persona reale.
Ecco: "Con Le Peggiori Intenzioni" di Alessandro Piperno è stato il mio libro. Questo per me pesa più della trionfalistica accoglienza che ricevette all'uscita nel 2005, quando Piperno era solo un virtuoso ma anche onanistico collaboratore del Corriere, più del buon successo di pubblico, più di qualche sparso giudizio positivo reperibile in rete. Non intendo stendere un'apologia oltranzista: se siete dei lettori "tradizionali", se v'interessa l'intreccio, la trama, troverete questo libro un inutile villipendio a qualche decina di boschi sparsi per qualche sperduta regione. Se avete familiarità con la scrittura ebraica del '900, cui fa evidentemente il verso, lo troverete probabilmente una brutta copia di Richler, Roth o Bellow. Nel migliore dei casi lo troverete un masturbatorio sfoggio di lessico e di capacità di scrittura, ma emotivamente più vuoto di un assolo dei Dream Theater. Ma c'è un ma. Se avete frequentato quella società altezzosa, kitsch e zeppa di orpelli e lustrini; se vi siete persi in quegli irraggiungibili occhi color brezza marina, e vi ci avete navigato a vista per anni, anche solo perché pensare di non vederli più faceva ancora più paura, e più male, che guardarli; se anche voi avete trovato negli anni un certo autocompiacimento nel ricordare un'adolesenza spesa alla ricerca dell'intangibile.. allora, riuscirete a scendere sotto la patina artificiosa e ridondante della sintassi piperniana, e vi emozionerete proprio come ai tempi.
Poi vi darò ragione a molte delle critiche che farete: personaggi caricaturali, situazioni caricaturali, perfino scrittura caricaturale. Non importa: togliendo la (più trascurabile di quanto non si legga nelle critiche) componente ebraica e smussati certi angoli eccessivi o parodistici, leggere in bello stile le tribolazioni - o meglio, la disincantata analisi a posteriori delle sue adolescenziali tribolazioni - di Daniel Sonnino è stato come rivedere la mia adolescenza in HD. E se potete, credetemi: l'ho trovato un libro, su tutto, onesto.
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