A Cristina di Svezia, si sa, piaceva moltissimo chiacchierare. Se ne accorse, a sue spese, il povero Cartesio, che a causa di quelle chiacchiere ci rimise le penne.

Ora, in mancanza di filosofi o letterati o diplomatici o, magari, alti prelati, per disquisire andava più che bene anche il proprio medico personale.

Il medico in questione si chiamava Pierre Michon Bourdelot ed, oltre ad essere medico e studioso rinomato, era un amante della musica e musicista, seppur solo dilettante, anch’egli.

Il Bourdelot accarezzava da tempo l’idea di scrivere una storia della musica che, però, trattasse anche degli effetti della musica stessa sull’animo umano. Ne aveva parlato con la sua regale paziente e lei gli aveva regalato una storia che era perfetta per quel libro: la vicenda di Alessandro Stradella, salvato dalla Musica e condannato dall’amore.

Lei, Cristina, se lo ricordava bene quello Stradella. Giovane ed affascinante, figlio di un tale Cavalier Marc’antonio (che si era perso il titolo nobiliare per aver abbandonato il castello piacentino alle truppe papali durante un assedio nel 1643) cresciuto, poi, alle dipendenze dei Lante a Roma. Brillante e spavaldo, fin troppo baldanzoso, si era fatto conoscere come talentuoso musicista già intorno ai venti anni ma poi era stato costretto a fuggire da Roma accusato di essersi appropriato di alcuni fondi ecclesiastici e perseguitato dalla sua fama di libertino.

Cristina, sebbene avesse, in campo amoroso, gusti di tutt’altro genere, non poté non restare colpita dal fascino esuberante di quel giovanotto e dalla bellezza della sua musica che ella non mancò di sovvenzionare.

La storia che Cristina raccontò al suo medico era bella, diamine se era bella! Talmente bella che la ripresero e la riscrissero in tanti, in Francia ed in Inghilterra. Ampliandola ed infiorettandola in mille modi, finché non arrivò – quasi due secoli dopo – fin alle orecchie di Stendhal.

E Stendhal una storia così, lui che amava così tanto gli aneddoti (in special modo quelli riguardanti l’Italia), non se la lasciò sfuggire: la riscrisse ben due volte, una nelle “Vies de Haydin, Mozart et de Métastase” ed una seconda, e più corposa, nella “Vie de Rossini”. Facendo del nostro Stradella un vero eroe romantico.

E così il mito biografico sovrastò ed, in parte oscurò, la bellezza della Musica.

Peccato.

Ebbene, in quella storia il nostro Alessandro, era partito da Roma alla volta di Venezia e lì, oltre ad adoprarsi per mettere in scena i suoi lavori, si prestava come insegnante di musica per le famiglie nobili di quella città.

Fu così che, uno di questi nobiluomini, un Pignaver, decise di affidare la sua amante Hortensia alle capaci cure dello Stradella affinché la perfezionasse nel canto.

Ma le cure del bell’Alessandro furono fin troppo sollecite e non si limitarono alle sole capacità canore della dolce Hortensia.

E i due fuggirono a Roma.

Il Pignaver, accecato dall’ira, assoldò due rinomati sicari per lavare nel sangue l’onta subita, con la promessa di ben trecento pistole più le spese di viaggio.

Gli assassini seguirono i due amanti, prima a Napoli e poi a Roma. Qui vennero a sapere che il loro uomo avrebbe dovuto eseguire un suo oratorio, nella chiesa di San Giovanni in Laterano. Così, il giorno prefissato, si mischiarono alla folla degli astanti ed attesero la loro preda.

E qui avvenne il prodigio.

La musica, quella musica, commosse e turbò i due assassini a tal punto che essa “cambiò, come per miracolo, il furore in pietà ed entrambi si convinsero che era male attentare alla vita di un uomo il cui genio per la musica attirava l'ammirazione di tutta Italia e risolsero di salvarlo, invece che ucciderlo.”

Così l'attesero all'uscita dalla chiesa e gli svelarono il loro intento e quello del suo persecutore. Gli confessarono di come quella sua musica li avesse toccati, e gli consigliarono di partire il prima possibile per un luogo sicuro.

Ora, io ci ho messo un po’, ma mi sono convinto – in base alle mie ricerche – che quell’oratorio dovesse essere questo “Ester liberatrice del popolo hebreo” che qui, più che recensire, vi sto proponendo di ascoltare e scoprire.

Io non faccio testo perché nutro una vera passione per il Barocco. E mica solo la Musica o la Pittura e l’Architettura! No proprio tutto il Barocco, anche quello più osteggiato dalla critica occhiuta e bacchettona, anche quello letterario, tanto per dire.

E come non amare un secolo che vede personaggi incredibili come il povero Daniele da Volterra - il famigerato “braghettone” – (quella sì che sarebbe una storia da raccontare!) od in cui i poeti arrivano a comporre persino odi che vanno a celebrare i pidocchi della propria amata (“come fere d’argento in bosco d’oro”)?

Fate la piccola fatica di superare la distanza temporale che ci separa da questa musica, accoglietela come qualcosa di attuale, ne scoprirete la insospettabile modernità, la selvaggia dolcezza e questo vostro, piccolo sforzo, sarà abbondantemente ripagato. Saremo lì, pervasi da questa musica, insieme ai due assassini che provarono a salvare i due amanti.

Provarono senza riuscirci.

Infatti, Alessandro ed Hortensia ripararono a Torino. E qui, sebbene protetti dai Savoia (che però tennero Hortensia in convento finché il nostro Alessandro non si convinse a sposarla), furono ancora raggiunti dalle lame di nuovi sicari assoldati dall’implacabile Pignaver.

Uno di essi pare fosse il padre stesso di Hortensia.

Stradella si salvò per miracolo.

Miracolo che non si ripeté a Genova, dove i due amanti si erano recati dopo la guarigione di lui.

Hortensia desiderava visitare Genova ed il suo mare. Ma il giorno dopo il loro arrivo, furono trucidati entrambi nella loro camera.

Quando Stradella morì era poco più che quarantenne.

Ora potranno dirvi che Hortensia (forse) in realtà era una Agnese Van Uffele e che il nobile cornuto e furente, pare, fosse un Contarini (Alvise o Luigi) ben più potente anche se meno accanito - o forse un Grimani o un Foscarini o un Pigelli o un chissà chi – e che il nostro Alessandro, l’Agnese, se la fosse portata a Torino e lì l’avesse piantata invece che sposarsela. Che a Roma, ça va sans dire, lui con lei (ed i suoi mancati assassini) non ci sia proprio andato. Che i pugnali che lo raggiunsero a Genova, in piazza Banchi (invece che in una stanza d’albergo) appartenessero ai consanguinei di un’amante oltraggiata dal nostro Alessandro, o di un’attrice che lui mise incinta, o che fossero di sicari assoldati dalla famiglia Lomellini per altri oscuri motivi.

Potranno anche dirvelo, ma sono verità come altre. Ipotesi. Congetture.

In realtà di Alessandro Stradella non sappiamo quasi niente.

O meglio, io due cose di lui le so: so che Arcangelo Corelli gli rubò l’idea, la realizzazione e, persino, il nome del “Concerto Grosso” e che Vivaldi gli rubò la fama.

E allora preferisco farmi trasportare in S. Giovanni in Laterano, sedermi con i miei demoni di fianco ai due assassini. Guardarli accarezzare i loro pugnali e, piano piano, lasciarsi rapire dalla potenza della Musica. Spiare il “loro furore farsi pietà”, mentre con essi si cheta anche il mio spirto guerrier mentre, lui ed i miei demoni, per un po’ smettono di ruggire.

E poi mi piace pensare ad Hortensia.

Hortensia per il cui dolce sorriso si affrontano anche le lame dei sicari.

Hortensia, perduta per le vie di Genova.

Hortensia.

  • Per la mia Hortensia.
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