"Sordo, sento

muto, parlo".

Esco dal mio letargo recensoreo per segnalare questo secondo album del prode tastierista nostrano, Alex Carpani, uscito a fine 2010 e meritevole dell'attenzione di ogni amante del progressive che voglia definirsi tale.  

Le parole sopra riportate (non a caso le uniche in italiano pronunciate in un album per metà strumentale e metà cantato in inglese) ben rappresentano l'idea alla base del disco ed ottimamente resa in copertina da un certo Paul Withehead (per chi lo ignorasse, il disegnatore delle storiche copertine dei Genesis Gabriel-era, dei Van Der Graaf Generator e delle Orme, tra gli altri): ognuno di noi ha un immaginario "santuario" personale entro le cui mura isolarsi dal mondo esterno, stare in pace, sognare, ricercare in un'atmosfera mistica quella grazia e quella serenità che la realtà quotidiana e le brutture che ci costringe a guardare sembrano sempre voler minare o sporcare.

E dunque, sordo a quanto di miserabile mi circonda, sento e ricerco dentro di me ciò che veramente conta; muto verso una desolante realtà che ha sempre meno da comunicarmi, parlo alla vita interiore che imperterrita pulsa ancora dentro di me.

Volendo, il santuario è lo stesso posto che invocavano Paul Rodgers, Roger Taylor e Brian May (chiamarli Queen senza Freddie è dura...) nel brano "Small", uno dei pochi con una melodia "che resti" del loro ultimo album, quando nel refrain dicevano "everyone needs a place they can hide, everyone needs to find peace sublime".

Venendo ai contenuti musicali, siamo al cospetto di 10 raffinate composizioni, tutte tra i 4 e i 6 minuti di durata (niente suites inaccessibili, quindi), come detto 5 cantate e 5 strumentali, tutte composte dal tastierista che si occupa anche delle poche parti cantate, peraltro egregiamente, con uno stile vocale che a volte mi è sembrato ispirarsi al Greg Lake "notturno" di I Talk To The Wind dei Crimson, a volte a Peter Hammil, altre a Gabriel.

Alternandosi tra dolcissime melodie di pianoforte, parti di hammond, moog e synth, Alex mostra una certa versatilità ed un gusto compositivo non comune che rende fruibili le sue canzoni anche da chi non mastica abitualmente il Rock Progressivo di matrice sinfonica, genere che il Nostro usa come territorio su cui muoversi per poi spaziare in composizioni mai statiche e sempre varie, passando da atmosfere più rilassate ed ariose ad altre più sacrali, tese ed inquiete, aiutato in questo anche da un chitarrista di ruolo (tale Ettore Salati, abile a sottolineare coi riff di elettrica le parti più rock e con ricami acustici quelle più armoniose), un bassista (Fabiano Spiga) e soprattutto un batterista come Luigi Cavalli Cocchi (Ligabue, Mangala Vallis e ora anche il progetto con Bernardo Lanzetti e Cristiano Roversi). 

Il pregio più evidente di questo album è proprio la godibilità di tutte le canzoni contenute, assimilabili senza che la noia faccia mai capolino durante l'ascolto, grazie a quella che ritengo essere la qualità maggiore che Carpani ha saputo dimostrare in questo lavoro, ovvero l'aver saputo stemperare l'eclettismo e l'abilità sui tasti d'avorio di un Keith Emerson con uno stile più teatrale e oscuro, se vogliamo, ma anche accessibile e "orecchiabile" alla Simonetti (Goblin), per intenderci, fino ad un gusto per le colonne sonore e per la melodia tutto italiano che non può non trovare in Morricone il riferimento più nobile.

Nulla di nuovo sotto il sole, ovviamente, ma per chi ama queste sonorità un disco del genere è manna dal cielo, e quando l'ispirazione compositiva è come in questo caso pregevole, l'originalità della proposta è un requisito che ci si può tranquillamente astenere dal pretendere...

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