Teneramente retrò, oldfashioned.
Intessuto col velluto dei giorni e col filo impalpabile della semplicità.
Un disco come una folgorazione, fatto con un'arte imponderabile. L'arte di un ragazzino che scrive canzoni come gemme, come foglie d'albero, naturali, spontanee.
Un tenue impasto di folk, di pop, di Donovanismo, di chissà che cosa. Ma tutto questo, come d'un tratto, sparisce.
Quel che resta è una manciata di canzoni trepide, fatte di quelle lontananze, di quei cani riccioluti e baffuti nei cortili, di quei giardini verdi di tarda primavera, di quei Teddybear, di quelle biblioteche comunali piene di libri dalle costole decorate d'oro e consunti, così familiari.
Io, Alex Pester non so chi sia.
So solo che scrive canzoni senza tempo e sublimi, e questo mi basta.
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