Partorire un'opera e battezarla come "Crisis" non è roba da tutti. O si ha molta auto-ironia anche in caso di successivo flop o è sintomo di consapevolezza delle proprie capacità come musicisti. E, fortunamente, per gli Alexisonfire vale questa seconda opzione.

Gli Alexisonfire provengono dall'Ontario (Canada), nazione che vanta una discreta tradizione di band dedite a quel emo di nuova generazione (Grade, Silverstein). Nonostante da quelle parti il loro nome sia molto quotato, tanto da farli arrivare in cima alle classifiche, passano completamente inosservati da noi. I ragazzi tuttavia meriterebbero maggiori consensi, che sarebbero tutti meritati.

"Crisis", che segue "Watch Out!", è il disco della maturità, la definitiva consacrazione dei cinque canadesi. La band rientra a tutti gli effetti nella nuova ondata emocore. Abile nell'alternare partiture di matrice hardcore e chitarre graffianti e screaming laceranti a intermezzi emo in scia ai ritornelli di rara bellezza. Tutta l'opera è giocata su continui cambi di tempi e ritmi pressochè mozzafiato, che spazzano via la monotonia.

La caratteristica che distingue gli Alexisonfire tra gruppi simili è l'alternanza di ben tre voci dietro al microfono. Quella predominante e urlata del leader George Peotit, che si contrappone a quelle più melodiche dei due chitarristi Wade McNeil (più sporca tuttavia) e sopratutto quella splendida e angelica, che trasmette un senso di tranquillità e freschezza di Dallas Green. A completare la line-up sono Chris Steele al basso e la new-entry Jordan Hastings dietro le pelli.

Nulla da eccepire sia sul piano sonoro, che lirico. Si fatica a trovare dei riempitivi, ove ogni canzone sembra avere un suo perchè. Decisamente particolari i testi, che trattano vicende auto-biografiche e spaccati di società, e poco propensi a immergersi in salmoni amorosi come sembra canonico per il genere. Tra questi vengono viene narrata la grande bufera di neve di Buffalo del 1977 sulla title-track, ma trovano anche posto tematiche più personali, come la triste storia del padre di George, a cui il datore di lavoro provò a privarlo della pensione.

L'opener "Drunks, lovers, sinners and saints" è già abbastanza semplificativa dello stile del gruppo. Ove alle strofe urlate da Petit si contrappone un ritornello anthemico giocato a due mani tra Dallas e lo stesso George. Chorus che ricorda vagamente quello della loro grande passata hit "Accidents".

Il singolo di lancio "This could be anywhere in the world" è decisamente la song più conosciuta dei nord-americani, (basti vedere gli innumerevoli ascolti anche su last.fm), grazie anche ai suoi ripetuti ritornelli è quella che prima delle altre rimane in mente, sebbene discreta, non rende giustizia al resto dei pezzi, che si attestano quasi sempre su livelli qualitativi superiori.

Mentre con "Mailbox arson" e "Boiled frogs" gli Alexisonfire raggiungono la vetta, illuminando il cielo e colpendo e emoziando l'ascoltatore dall'interno. In entrambe, se ce ne fosse bisogno Dallas si conferma come un vocalist decisamente dotato e sublime per qualità e interpretazione L'incisiva e diretta "Mailbox arson" al trascinante grido di "you're not safe in this town, you're not safe in this town..", con la sua strana invettiva contro le periferie, è la dimostrazione di come si può avere un gusto raffinato per le melodie (splendido il breakdown soave), lontani da certi clichè e da certe sonorità pop-punk tanto abusate e scambiate spesso per quello che non sono.

In "Boiled frogs" sono riversati e dosati alla perfezione tutti gli ingredienti: riffing avvicente, parti corali stupende, hands-claps e una coda finale melodica con note di piano da incorniciare, elementi che ne fanno uno dei pezzi-colonna del genere.

Ancora più vivaci ed estoverse invece "We are the sound" e la title-track "Crisis" con pattern decisamente schizzofrenici, in cui ben figura il drummer, in cui a farle da padrone è la consueta alternanza di registri vocali contrapposti, sebbene sia sempre la voce urlata ad avere maggior spazio qui.

Poggiando la lente di ingradimento sul platter notiamo poi le sperimentazioni abbastanza inusuali di "Burn first" (che a dirla tutta sembra un pesce fuor d'acqua) in cui troviamo gli Alexis in una vesta inedita rock, con tonalità cupe e viscerali, le frizzanti e cariche "We are the end" e "Keep it on wax" (con i suoi bei giri di basso e stacchi mozzafiato), contrapposte a "To a friend" in cui viene tolto parzialmente piede dall'acceleratore per un attimo.

L'altro cambio importante di stile ("Burn First" a parte) si registra in chisura con la power-ballad "Rough hands" dal retrogusto malinconico e dark, in cui viene usato il pianoforte, ma dove tuttavia non si rinuncia agli screaming nemmeno qui, tanto per rimarcare la coerenza e il brand della band, che in misura differente in ogni pezzo, non rinuncia mai al cantato urlato.

Si parla di una qualità media comunque altissima, e se dovessimo stilare un ipotetico greatest-hist, praticamente figurebbe quasi ogni pezzo.

L'artwork si distingue in base alla zona geografica. Dove quello per il mercato americano (in alto) è graficamente superiore a quello della versione europea raffigurante un vecchio sfigurato dal gelo.

Gli Alexisonfire sono tutt'altro che in crisi, e se le produzioni emo si attestano su questi livelli, ben vengano pure. Uno dei dischi del 2006.

Carico i commenti...  con calma