Sinceramente non avevo mai sentito parlare di questo film, ed è stato ancora più sorprendente vederlo senza conoscerne dettagli e situazioni che ne sono alle spalle. Una sorpresa perchè il soggetto poteva scadere nella solita moina fantascientifica senza senso e spettacolarizzata e perchè Clive Owen non mi è mai andato a genio. In realtà però la storia che ci viene raccontata dal messicano Alfonso Cuaron, ripresa dall'omonimo romanzo di Phyllis Dorothy James del 1992 è non soltanto una pellicola di matrice fantascientifica ma anche (e soprattutto) un film che pone domande di riflessione più generale.

Siamo nel 2027 e da diversi anni le donne sembrano aver perso la loro fertilità e nel momento in cui muore la persona più giovane del pianeta si scatena il pandemonio, supportato da organizzazioni che lottano per difendere gli immigrati, che dal canto loro tentato in ogni modo la rivolta.

Il teatro di questo scenario frastagliato, che assume i caratteri della vicenda post apocalittica è un'Inghilterra che chiude all'interno di gabbie tutti i profughi. In modo velato Cuaron delinea la "cultura dell'intolleranza": le droghe leggere sono proibite (ne fa un largo uso Jasper, interpretato da Michael Caine), un veterano hippie che aiuta il protagonista dell'intera storia, Theo (impersonato da un finalmente convincente Clive Owen), così come è proibito l'intervento a favore degli immigrati. Quest'ultimo che ha l'alone di un antieroe ormai stanco della vita e deluso dalla passata esperienza d'amore con Julian (Julianne Moore), si ritrova immischiato a causa della sue ex moglie nell'organizzazzione clandestina chiamata "Pesci" che si occupa di rappresaglie armate e appoggia la causa dei profughi. All'interno di questa organizzazione segreta c'è una giovane ragazza miracolosamente incinta e l'obiettivo che viene affidato a Theo è quella di portarla in salvo.

Da quì in poi inizia un lungo viaggio attraverso un'Inghilterra depredata, solitaria e perennemtne resa oscura e umida dalla fotografia di Emmanuel Lubezki, collaboratore di Cuaron da diverso tempo e candidato all'oscar proprio per I figli degli uomini. Un cammino che inevitabilmente porterà morte, sangue e la perdita di amici e persone care. Ciò che si evince con chiarezza dal film del regista messicano è il messaggio lanciato; un messaggio che è indirizzato all'umanità nella sua globalità: il film non ruota solamente attorno alla figura di Theo ma interagisce su diversi piani in cui si presentano nuovi personaggi. Fin dalla scena iniziale in cui troviamo "la folla" e poi con il proseguo per arrivare infine alla conclusione, si susseguono sequenze con diversi individui, quasi a voler ribadire che Cuaron indirizza il suo pensiero alla globalità delle persone e non a ristretti gruppi etnici che potrebbero essere chiamati in causa.

Sta all'uomo scegliere se continuare nel suo corso: esperimenti, surriscaldamento e scelte politiche hanno portato la Terra sull'orlo del baratro e il risultato è l'infertilità delle donne. Le conseguenze sono la distruzione, lo scoppio di guerre civili, la fame, la violenza. Eppure in un mondo devastato dall'ingiustizia e dall'abiezione, c'è ancora spazio per la speranza. Sarà un messaggio buonista, forse anche scontato ma passa attraverso una storia resa avvincente, ben interpretata dagli attori e stabile sul piano narrativo/filmico.

"Mi è stato detto di dirti che sei un porco fascista".

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