Molte immense opere letterarie e cinematografiche hanno per protagonista un personaggio privo di un'identità precisa a causa di una collocazione sociale incerta, di un contesto familiare annientante o di un'infanzia trascorsa in un perenne atteggiamento di autodifesa nei confronti della vita in ogni sua manifestazione. Nella maggior parte di tali capolavori, i nostri beniamini riescono sempre ad emergere fino a definirsi in tutta la loro grandezza nascosta. Dicesi "lieto fine", niente di nuovo. Perché nulla è avvilente quanto l'anonimato, o almeno così ci è stato detto sin dalle elementari, dove mediocre, scritto a penna rossa sul quadernino, rappresentava un'ingiuria infamante. Ma ne siamo sicuri?  

La seconda signora De Winter. La nuova moglie del vedovo De Winter non ha nemmeno un nome. E' una dama di compagnia, vive per soddisfare le esigenze altrui. Le è stato assegnato il viso pulito e carino di Joan Fontaine, non la bellezza torbida di Vivien Leigh, o i tratti marcati di Loretta Young, o l' affascinante malinconia di Margaret Sullavan, tutte candidate al suddetto ruolo. A bilanciare la "normalità" del personaggio c'è solo una piccola manciata di buoni sentimenti che, tuttavia, le permetteranno di salvare la vita ad un aristocratico miliardario, di farlo innamorare e farsi sposare. In breve tempo è diventata la nuova padrona di un maniero senza muovere un dito. Una vera ingiustizia. E infatti il castigo non tarda a palesarsi nel pallore spettrale della governante Danvers e negli ambigui atteggiamenti del marito Maxim, entrambi adulatori della defunta Rebecca. La ragione della sua centralità è rimarcata dal titolo, enfatizzata dai continui richiami alla sua dolente assenza eppure non è riposta in nessuno di questi due aspetti. E' forse un caso che il momento in cui viene svelato il mistero-Rebecca sia uno dei piu appaganti e catartici dell'intera pellicola? Niente avviene per caso con Hitchcock.

E' lo stesso momento in cui Maxim espone i motivi dell'apparente uxoricidio. Lo spettatore distratto (o abbacinato dalla scorrevolezza dei dialoghi) comincia a simpatizzare verso l'uomo, condonandogli alcuni comportamenti oscuri, o almeno giudicati tali: si scopre infatti che Rebecca è solo un sogno, è l'idea della moglie bella, ricca e intelligente. In realtà è perfida e malvagia, e la confessione del vedovo sembra adombrare l'accusa di perversione sessuale, poi confermata. Rebecca è bella e dannata. Ha sposato un lord per elevarsi socialmente ed ha ottenuto risultati di gran lunga maggiori rispetto alle aspettative: è diventata una celebrità. Chiunque l'abbia conosciuta la descrive come un essere angelico, carismatico, per il contabile di casa De Winter è addirittura "la piu bella creatura che abbia mai visto". Maxim e Rebecca non sono altro che la classica coppia della Hollywood dell'epoca d'oro. Rappresentano il prodotto eccelso della razza umana, gli esemplari cui si associa il resto del branco.

Sotto questo punto di vista, la figura della Danvers è fondamentale. Il suo tetro aggirarsi per le stanze del castello e l'ostico comportamento riservato alla neo signora lasciano sospettare che nasconda qualcosa in relazione alla morte di Rebecca, soprattutto per coloro che approcciano ad un film di Hitchcock nella ferrea convinzione di guardare "solo un giallo". La signorina Danvers infatti ha poco a che fare con la fine di Rebecca, d'altronde non le avrebbe otrto un capello perchè lei è la sua fan numero uno. Nessuno può prendere il suo posto, nessuno può raggiungere i suoi livelli di splendore, nessuno può mettere piede nelle sua stanze, presidiate come un reliquiario. La Danvers non è semplicemente la solita cameriera visceralmente legata alla padrona al punto da negare dignità umana a chiunque altro, persino a se stessa. La governante è il prototipo dell'adepto ai nuovi miti dell'immagine, della vita che diventa favola, dei sorrisi abbronzanti e degli equilibri esteriori. Niente di piu contemporaneo. 

Eppure siamo nel 1940, Hitchcock gira il suo primo film statunitense (e fu già Oscar, di preciso: miglior film, miglior fotografia in bianco e nero). Il regista britannico è da poco sbarcato ad Hollywood, ma il suo genio non impiega molto tempo per intuire le sfaccettature del divismo americano e il modo in cui esso veniva recepito dalla massa popolare. La sceneggiatura, basata sull'omonimo romanzo di Daphne Du Maurier, riesce a stemperare le tonalità melò con l'intrigo del noir e la suspence del giallo. La conclusione invece è tutta rosa: Maxim riesce a scagionarsi dall'accusa di omicidio grazie ad un inaspettato colpo di scena. Scelta furba, dal momento che intanto la maldestra confessione dell'uomo, tutta lacrime e senso di colpa, intenerisce il pubblico. Il vedovo si riabilita, la mogliettina insipida sfugge all'incendio appiccato da una Danvers ormai impazzita e il ricordo di Rebecca naufraga in un mare di fango. Chi non è innocente muore o esce di scena e al pubblico mediocre viene garantito il suo beffardo trionfo: "Lieto fine".

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