Se mi mettono la testa in una ghigliottina, va bene, ma se mi mettono un ago vicino, svengo sul pavimento (Alice Cooper).
Finalmente la mia costanza nella caccia a vinili AAA dell’epoca d’oro del rock è stata premiata: mi sono accaparrato due dischi che cercavo da tempo e che, quantomeno, condividono l’estetica delle copertine: foto di ragazzoni americani dallo sguardo arrogante che sfoggiano boa di struzzo al collo, scarpe dalle enormi zeppe ai piedi e facce spudoratamente truccate da donna: l’omonimo delle “New York Dolls” e il recensito degli “Alice Cooper” (la band, che era composta da Vincent Fournier alla voce, Glenn Buxton alla chitarra solista, Michael Bruce alla chitarra ritmica e alle tastiere, Dennis Dunaway al basso e Neal Smith alla batteria). Forse un giorno racconterò delle “bambole” ma, considerata la diversa accoglienza dei due lavori da me orgogliosamente proposti con tanto di vinile in bella vista nella sezione “Ascolti” del DEB (10 a 3 per i newyorkesi), decido senza indugio di perorare la causa di Alice.
Sebbene ce ne sarebbero da raccontare*, questa volta non parlerò delle vicende di Vincent Fournier perché se non le conoscete siete voi in difetto ma potrete facilmente rimediare, tanta è la narrativa del personaggio sul web. Però, per legittimo proselitismo nei confronti di questo psicotico amante dell’eccesso che nel 1971 ha deciso di piantare un paletto di frassino nel cuore del flower power, citerò due sue frasi: “Le ragazze hanno iniziato a parlarmi e io sono rimasto attaccato ai riflettori. Ecco perché mi sono dedicato al rock 'n'roll, per fama e sesso”; “Gli hippie volevano pace e amore. Noi volevamo Ferrari, bionde e coltelli a serramanico”. La vera natura di Vincent era quella di un ragazzo nato nell’epoca giusta per sognare di diventare una rockstar, tra l’altro dotato di un’ironia e di un sarcasmo fuori dal comune, segni inequivocabili di un bel cervello acuto. Prova ne è il fatto che, ad un certo punto, gli fu chiaro come il gioco al massacro cui aveva dato inizio con i suoi primi lavori avesse raggiunto un livello tale da cui sarebbe stato difficile tornare indietro e virò, appunto, sul terreno dello scherno dando vita alla sua carriera solista. Ma che all’epoca di “Love It To Death” facesse “sul serio” cercando di scioccare il pubblico non solo con spettacoli dal vivo cruenti, cosa che resterà un marchio di fabbrica durante tutta la sua carriera, ma anche narrando apertamente disagi mentali, fobie, necrofilia e pulsioni omicide in salsa rock sbattuta con ritmi infernali e ritornelli orecchiabili è fuor di dubbio. Cerimonia e disperazione condividono lo stesso cielo; riff e melodie la stessa terra.
Poggiata la puntina sul vinile si parte subito forte con “Caught in a Dream” scritta da Bruce a dimostrazione del fatto che, all’epoca, Alice Cooper era una band a tutti gli effetti. Il testo (Well I'm runnin' through the world/With a gun in my back/Tryin' to catch a ride in that Cadillac/Thought I was livin'/But you can't never tell/What I thought was heaven/ Turned out to be hell) sembra quasi un’introduzione alla successiva “I'm Eighteen” descrivendo entrambe situazioni di disagio mentale, in questo caso dato dall’angoscia di chi sta per raggiungere il successo ma comincia a intravedere anche il vuoto dell’ambizione. Musicalmente è punk dei primi ‘70 con un ritornello che ritrovi la mattina dopo sotto la doccia e un onesto lavoro di chitarra di Buxton e Bruce, a mio avviso più bravi a creare riff che a suonare. A seguire, in questo diretto/gancio/montante da KO inferto dalle tre tracce di apertura, la più famosa del lotto che data l’attualità dell’argomento (l’adolescenza) meriterebbe una recensione a parte: “I’m eighteen and I don’t know what I want/Eighteen. I just don’t know what I want/Eighteen. I gotta get away/I gotta get out of this place”. In poche parole cosa si prova a essere un maniaco ormonale in cerca di qualcosa che non si sa cosa sia e dove cercarla e con l’unica via d’uscita data dalla fuga. Quando barcollando pensi di riuscire a stare in piedi sul ring la grandiosa “Long Way to Go” ti stende inesorabilmente al tappeto con un ritmo furioso vicino al suono selvaggio degli Stooges e degli MC5, anche se il risultato è un po’ meno violento dovendo lasciare in risalto la voce di Cooper, caratteristica come poche ma tendente a sporcarsi al minimo sforzo. Chitarre affilate come lame di rasoio, il bel lavoro di Bruce al piano e Cooper che intona altre grandi strofe (“What's keeping us apart isn't selfishness/What's holding us together isn't love”) per il pezzo selvaggio che da solo vale il biglietto.
(S)Fortunatamente in “Black Juju” il ritmo si fa più lento tra tamburi tribali e organi rituali, anche se la tensione rimane alta grazie al testo che sembra parli di qualcuno che muore, viene imbalsamato, seppellito e poi torna come uno zombie o qualcosa del genere. Utilizzata negli show dal vivo per dar modo a Vincent/Alice di officiare i suoi deliri popolati di rettili, cascate di sangue, ghigliottine, sedie elettriche, camicie di forza e amenità varie, quanto reso sul vinile non è abbastanza convincente da reggere una canzone di ben nove minuti. Particolarmente fastidioso è il passaggio a metà traccia quando tutto ciò che sentite è Cooper che sussurra e dei di tic-tac di una bomba che non esplode mai. Ma tranquilli, basta girare il vinile e si riparte alla grande! “Is It My Body”, in cui si sentono le radici garage rock della band, ha un testo alquanto esilarante se si considera che è cantata da un ometto magro che ha a malapena un corpo (“What have I got/That makes you want to love me/Is it my body…have you got the time to find out who I really am?”). Scaldati i muscoli la band è pronta per un altro triplo colpo: “Hallowed Be Thy Name”, “Second Coming” e “Ballad Of Dwight Fry”. Degno di nota il testo della terza traccia del lato B che solo il figlio di un predicatore avrebbe potuto scrivere: “Hell is getting hotter/Devil getting smarter all the time/And it would be nice/To walk upon the water/To talk again to angels”. Prima della conclusiva cover “Sun Arise” (di Rolf Harris), un allegro riempitivo e nulla più, un delizioso pianoforte e la voce del bambino che dice "Mommy, where's daddy” introducono la “Ballad of Dwight Fry” che si snoda lungo un aspro strimpellio di chitarra con Alice che inizia a cantare di come Dwight è stato internato in un istituto psichiatrico ma alla fine è riuscito a scappare. Brano epico che esalta le doti interpretative di Cooper e che ha ispirato tonnellate di note tese a replicare un classico della produzione di Alice Cooper, provare per credere con “One in a Million” dei Guns N' Roses …
Doveroso, infine, ricordare che gran parte del merito è da attribuire al produttore Bob Ezrin, qui al suo debutto (quando si dice un genio …). Prima di incontrarlo gli “Alice Cooper” si aggiravano nell'underground del rock n' roll aggredendo i timpani di coloro che andavano a sentirli a Los Angeles. Anche se Cooper con il solito disincanto narra: “L.A. non ci ha capito. Erano tutti sotto l'effetto della droga sbagliata per noi. Erano sotto l'effetto dell'acido e noi fondamentalmente bevevamo birra” un cambio di rotta così evidente non può esser giustificato dal solo fatto di aver traslocato. Più che altro Ezrin li lasciava suonare come avevano sempre fatto: improvvisando. Ma ad un certo punto li stoppava per tirar furori dal caos riff e melodie sulle quali poi costringeva la band a lavorare. Fu così che dalla confusione ispirata nacquero una manciata di hit rock da urlo.
P.S. sempre nel 1971 A.C. pubblicò “Killer” che, con il recensito, condivide la presenza di 2/3 brani non all’altezza ma che con il resto ha contribuito a scrivere le prime e più belle pagine della storia del rock. Adesso scusate ma devo andare ché la caccia continua e ‘stavolta al … Killer!
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