[Perdindirindina! Questa è la recensione numero 1000! E nessuno ha detto nulla! Ma come è possibile? Bravo Rooster, bravi gli Alice in Chains, bravi tutti, ma dopo: adesso ne vogliamo altre 1000.]
Certo, una pubblicazione del genere nell’anno 2000 non può dissimulare quell’amaro sapore di manovra commerciale; comunque, poiché la band non aveva mai dato alle stampe un vero e proprio live, è giusto che ne abbia uno, seppur tardivo. La compilation attinge i singoli brani da periodi e registrazioni diverse, causando una certa discontinuità, che, in fondo, è l’unico punto debole. A parte questo, ciò che più conta è che si assimili di nuovo l’atmosfera dei migliori Alice In Chains.
Tutti e quattro i membri del gruppo sono in piena forma: Cantrell forgia incomparabili melodie con la chitarra e accompagna Staley con la sua voce fluida, mentre Kinney, alla batteria, da il meglio di sé in ogni circostanza, specialmente durante l’inno scatenato di “Would?”. Alla prima traccia, “Bleed the Freak”, irrompe subito il canto selvaggio di Staley, in un’esibizione davvero unica. Successivamente, viene proposta una canzone che riesuma le radici della band, si tratta di “Queen of the Rodeo”, la cui apparente vaghezza non deve ingannare: già agli esordi come al successo, i testi si concentrano sugli aspetti più difficili della vita. I brani si alternano in un viaggio esoterico: tuonano le sferzate canore di “Man in the Box” mentre ancora ombreggia nella mente il susseguirsi di agonie generato da “Angry Chair”; e così via, tra la rabbia passionale di “Love, Hate, Love”, la tossica “Junkhead”, l’incedere minaccioso, decadente di “Them Bones”e la grottesca e sporca “Dirt”. “Rooster”, più lenta e scandita, riesce ancora a far rabbrividire.
Non vengono trascurati nemmeno i pezzi tratti dall’omonimo album; infatti, dopo la desolata e annebbiante “God Am”, si precipita nell’intreccio di percussioni brucianti e toni marmorei di “Again”. Verso la fine, si scopre, invece, una canzone poco nota, ma meritevole di ascolto: è la controversa “A Little Bitter”, che si aggroviglia tra suoni distorti e frasi dissacranti.
Per concludere con istintiva ferocia, si apre la lacerante “Dam that River”. Le emozioni non mancano nel live, la cui essenza riapre le porte del torbido abisso scavato dalla musica degli Alice In Chains.
“Some say we’re born into the grave”.
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