Ci sono cose nella vita che vanno preservate, custodite dai vandali, curate se scheggiate dalle offese del tempo, e tramandate. Sono memoria. Memoria.
Mi piace questa parola, adoro anche la sua radice greca, mimnesko, un verbo di pronuncia contorta, perché a volte tortuosi sono i percorsi della memoria. Difficili, per ricordare bisogna fare fatica. A dimenticare non ci vuol nulla. Perdonerete la premessa, ma, come si suol dire, serve a inquadrare il tema.
Il film in questione, uscito qualche anno addietro, è un racconto dei ricordi, attraverso immagini e parole scritte. Narra di una madre, e di una figlia che ne ricorda il calvario attraverso i giorni scanditi dalla sua malattia. Quella malattia che ha tanti nomi e nessun nome, che i dottori della mente credono di conoscere nei meccanismi più profondi e negli accessi più violenti. E che invece, ancora oggi, rimane un punto di domanda. Da dove arriva, come si genera, come si può curare.
Ricordi, allora, solo ricordi di una bimba che vede sfigurarsi il fiore della bellezza e della dolcezza materna. E rimpianti, quelli della bimba fatta donna che chiede a chi dispensa quel morbo con casuale precisione – random precision diceva Waters a proposito di un pazzo diamante – di poter avere un’ora sola. Un’ora sola per dire parole mai dette, indugiare con lo sguardo sugli occhi di lei, conosciuta invece attraverso minuziosi quanto indecifrabili, oracolari referti medici tutti diversi e tutti uguali, cronistoria di un male oscuro che si voleva ai tempi confinato in cimiteri dell’anima e, oggi che questi sono chiusi (ricordi anch’essi), dimenticato da tutti, relegato nel chiuso delle mura domestiche di chi “ha la disgrazia in casa” e non sa, non vuole, non può chiedere aiuto. Aspettando il giorno, “quel” giorno. Augurandosi, implorando nei momenti di più acuta disperazione, che giunga presto, presto, presto...
La mamma di Alina morì suicida, capitava a molti all’epoca, spesso era la sola liberazione che ci si poteva concedere dalle torture inflitte da una psichiatria ottusa, così impotente quanto sadica.
Capita tutt’oggi. Forse ancora di più. Senza clamori, o voli nel vuoto. Oggi non si dà l’elettroshock, oggi si spengono le persone con i neurolettici “di nuova generazione”. Quelli che distruggono ogni forma di volontà e che per curare l’effetto uccidono l’organo che lo produce. Il cervello. La casa dei ricordi.
“C’è del metodo in questa follia” (Shakespeare, Amleto)
Carico i commenti... con calma