Dopo il successo del precedente "From Here To Infirmary" gli Alkaline Trio si rifanno sotto con questo "Good Mourning", quarto album in studio, che vede anche l'ingresso nella line-up di Derek Grant (ex Suicide Machine) alla batteria al posto di Mike Feumlee.

Il titolo del disco, (letteralmente buon lutto), già dice molto anche sul tipo di testi e musica del trio, si dimostra essere un album molto cupo e malinconico. Accentuando ancora di più l'originalità della band nel creare melodie emozionali e catchy, ma allo stesso tempo molto romantiche e cupe. Tuttavia come sempre non mancano motivi più spensierati.

L'inizio si rivela già dei migliori con "This could be love" che oltre ad avere una delle melodie più riuscite di sempre, è davvero un grande componimento, ritmo lento e sofferto nelle strofe ottimamente interpretate da Matt Skiba, pezzo che sintetizza lo stile della band.

Ma per non farci mancare niente i Chicagoani, a differenza del precedente lavoro, ci propongono pezzi più energici e molto taglienti, ne è un esempio "We've had enough", uscita pure come singolo e sicuramente la più esaltante del lotto. Canzone dagli accenni decisamente punk-rock, abbastanza atipica almeno per loro, ottima la sovrapposizione delle due voci sul finale. Mentre si torna più negli schemi con "100 stories" cantata da Andriano e che tende al pop-punk. Segue la più soffusa "Continental", dedicata ad un amico scomparso per droga.

"All on black" è un'altra ballata dalle forti tinte emo, continua il discorso della precedente, in cui emerge l'ottima interpretazione vocale di Skiba che gioca sulle sfumature più roche della sua voce e si conclude con un bel l'assolo finale. Decisamente una delle migliori a livello emozionale. Si torna ad una melodia più scanzonata invece con il power-pop-punk di "Emma". Stessi canoni riscontrabili pure nella festosa "Blue caroline" cantata da Andriano.

Ma le vere sorprese del disco stanno certamente nella furia di "Fatally yours" (che non definisco hardcore solo perché il gruppo non è incline al genere) traccia molto breve ma dal ritmo forsennato e "Donner party". In "Every thug needs a lady" invece si segnala l'uso della chitarra acustica che si intreccia alle elettriche.

Il disco si inoltra nelle battute conclusive con "Donner party", "If we never go inside" e "Blue in the face". La prima di queste è decisamente la più energica, segue la discreta e orecchiabile "If we never go inside". Mentre l'ultimo saluto spetta alla lenta e dolce ballata suonata solo con la chitarra acustica "Blue in the face".

Il disco sicuramente merita, sebbene subisca un calo nella seconda parte in cui i pezzi diventano leggermente più prevedibili. Tuttavia è innegabile e riconoscibile il tocco personale che il gruppo riesce a dare alla propria musica.

Insomma non avremo di fronte un altro "From Here To Infirmary" o "Crimson", ma il disco si fa ascoltare con discreto piacere.

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