I Novanta saranno "imperituramente" ricordati per aver sfidato il grande battaglione plastic-pop profilatosi nel decennio precedente: se lustrini, paillettes e palle da discoteca avevano letteralmente dominato il mood eighties quasi nella sua interezza, qualcosa si muoveva nelle viscere del sottosuolo underground già alla fine degli anni della consacrazione di Jackson e Madonna. Ecco dunque la corazzata grunge e alternative rock a contrastare efficacemente i soliti campioni delle charts internazionali, a proporre un jolly analogo al mirabolante spettacolo pop dei nemiciamici. Il tentativo di Nirvana et similia di sfondare il fortino del mainstream barocco e discotecaro durò il tempo di una leggenda discografica, peraltro anch'essa fortememente stigmatizzata dal bieco marketing della case discografiche, e il Pop delle migliori origini non solo ritornò a spodestare la concorrenza divenuta debole nel lungo periodo, ma subì una decisa rivitalizzazione nel fenomeno delle boy/girl band, totale & assoluta contrapposizione alla tanto decantata genuinità alternative.
E così l'autostrada a nove corsie del movimento grunge/underground - ridotta in pochi anni a scomoda mulattiera da trattorino - venne dismessa a favore del grande snodo mainstream delle varie Spice e dei numerosi Backstreet, teen-groups i cui membri, ancora lontani dalla maggiore età, performavano canzoncine sull'emancipazione femminile, sui giochetti adolescenziali proto-amorazzi e sulla vita spensierata del college (che comunque nella realtà era un background apparente, dato che questi ragazzetti erano impegnati dodici ore al giorno negli studios e nei set dei videoclip). Abbandonati i palchi unplugged a favore di selvaggi party all'American Pie, le case discografiche puntarono su quelle giovanissime promesse del music/show biz, spesso ancora acerbe per capire appieno la potenza devastante del divismo mediatico al quale sarebbero andate (a volte malauguratamente) incontro.
All'interno di questo bel mucchietto figurava, un po' in sordina rispetto a formazioni più redditizie, il girl group inglese delle All Saints, formato dalle sorelle Nicole e Natalie Appleton, da Shaznay Lewis e da Melanie Blatt. Giovanissime debuttanti nel lontano 1993 con il nome di All Saints 1.9.7.5., le quattro signorine dovettero aspettare l'uscita del primo grande successo Never Ever, tratto dal debutto omonimo - datato 1997, per accarezzare una fama non solo nazionale ed europea. Nonostante il notevole seguito del secondo lavoro in studio Saints & Sinners e delle hits Pure Shores e Black Coffee, il marchio All Saints arrivò al capolinea nel 2001 a causa di negative intemperanze contrattuali; nel gap fra lo scioglimento e la reunion del 2006, i riflettori sulle ex-Sante non si spensero ed anzi rivolsero lo strobo alle conturbanti sorelle Appleton le quali, impegnate a fondare il duo omonimo e a flirtare con Robbie Williams e con i facinorosi Gallagher, presero il sopravvento sulle altre colleghe. Ripartito nel 2006, il progetto All Saints 2.0 fallì ben prima di decollare e non bastò il timido successo del brano Rock Steady per salvare l'album Studio 1 dal miserrimo baratro.
Pure Shores: The Very Best Of rappresenta dunque un greatest hits-epitaffio che le Saints si sono concesse prima di calare definitivamente il sipario. All'interno di questa vastissima collezione di successi, brani non estratti e b-side, si trova il meglio e il peggio dello sfortunato girl group, come pure si riesce ad identificare il suo stile, ovvero un interessante mix di R&B/Hip Hop old school (dalle forti influenze New Jack Swing) e di sonorità elettronico-undeground, con sporadiche improvvisazioni dance, urban e pop-rock. Se da un lato tracce come I Know Where It's All e Let's Get Started rimangono statiche nel fortino del sound da ghetto commerciale metà anni '90, successi come Pure Shores e Black Coffee tirano fuori l'anima "alternativa" delle Sante Irredente, anima peraltro foraggiata dall'incommensurabile genialità produttiva del William Orbit di Ray Of Light. Non mancano poi gli altri brani-marchio della band, primi fra tutti la ballata soft R&B -lounge Never Ever e le cover di Lady Marmalade e Under The Bridge (quest'ultimo reso famoso dai Red Hot Chili Peppers di Blood Sugar Sex Magik), appositamente calati in un contesto black-raffinato-radical chic, nonché gli ultimissimi Rock Steady e Chick Fit, dalle influenze meno elettroniche e più reggae/ska. Fra i non estratti spicca la dolce nenia ambient Dreams e il danzereccio funky hip hop di Love Is Love.
Disprezzato senza requie, ma anche prontamente recuperato dalla naftalina in caso di nostalgie improvvise, il periodo florido delle band simil-adolescenziali può essere letto secondo varie scuole di pensiero, più delle volte prolisse nel definire l'importanza o meno di tale contesto. Eccovi, dunque, una summa di quel che rimane degli anni delle scolarette col microfono e dei miniganzi a spasso per ghetti scenograficamente montati ad arte. In una versione un po' meno artefatta e plasticosa del solito.
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