Da prode chitarrista tendenzialmente dedito all'Heavy Metal in tutti i suoi sottogeneri, sopratutto Progressive, lo studio del Jazz era un qualcosa che sarebbe prima o poi, arrivato, e con esso l'ascolto dei vari pilastri del genere, che sia Fusion, Free Jazz o altro, poco importa.

Scoperto nel lontano 2006 nel pieno dell'adolescenza e riscoperto in età adulta, appunto, da studente di chitarra gezz, Allan Holdsworth, per me, assieme a pochissimi altri veri e propri "mostri", rappresenta l'apice di un certo tipo di virtuosismo quasi inarrivabile ai più.

Molti lo citano come il più grande di tutti i tempi, e hanno, secondo me, dannatamente ragione, per chi ci capisce un qualcosina in più: un fraseggio liquido e assolutamente imprevedibile, un senso della melodia praticamente unico, una tecnica, sopratutto nel legato, a dir poco inarrivabile.

"The Sixteen Men of Tain" è un disco che nell'ultimo periodo ho letteralmente consumato, scervellandomi per tirar giù le impossibili parti di chitarra presenti al suo interno, e che per me rappresenta uno dei dischi più belli di Holdsworth: inaspettatamente melodico, ritmicamente e melodicamente evocativo, sognante.

Ma mi voglio fermare qua.

Dico solo che è uno dei pochi dischi "di genere" che consiglio a chiunque: un piccolo capolavoro che secondo me meriterebbe più spazio nella sua sconfinata discografia.

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