" ‘o sciore cchiu felice è ‘o sciore senza radice
corre comme ‘o cane senza fune, ‘o sciore senza padrune".

E' sulla scia una libertà compositiva matura e produttiva che quest'album nasce, cresce ed è diventato sicuramente una pietra miliare della nostra epoca.

Sanacore è un enorme sacco magico che racchiude profumi, suoni, emozioni tutti nostri: mediterranei, africani, arabi. E' stupendo ascoltare una tale perla (che ha tutte le carte in tavola per entrare a far parte dell'emisfero di ciò che oggi chiamiamo "world music") e pensare che solo pochi anni e pochi chilometri ci dividono.

L'idea generale è quella di un lavoro che congiunge sapientemente e dignitosamente timbri e vibrazioni proprie della tradizione popolare napoletana (donati dalla voce e dalla mente di Raiz - Reeno all'epoca) che, come in un viaggio alla riscoperta delle proprie radici, s'immerge in suoni, colori e forme della musica africana e, in maggior misura, araba, anche grazie all'uso vario di strumenti e percussioni che conducono immediatamente a un ascolto quasi estatico e visionario. Il tutto ovviamente unito all'inconfondibile atmosfera cupa e misterica - divenuta ormai un marchio di fabbrica dei nostri, che trae la propria linfa vitale dal reggae ma soprattutto dal dub; elementi questi ultimi che confluiscono pienamente in "O' sciore cchiù felice", "Maje" e "Pe' dind' e' viche addo' nun trase 'o mare": prime tre track dell'album che mirano man man a sonorità sempre più contaminate e arabeggianti, accompagnate inoltre da testi notevoli e suggestivi, che d'altronde caratterizzano l'intero disco.

La title track è un rimando schietto e onesto alla più pura tradizione folkloristica napoletana, e ciò è rafforzato dal flauto decisamente "in stile" di un ospite d'onore quale Daniele Sepe.

Le successive "Ammore Nemico", "Sciosce Viento" e "Ruanda" sono senza dubbio meno pregne di reggae, ma continua la ricerca di fusione e congiunzione di culture e tradizioni diverse: ritmiche e basi rock e funk dello storico batterista Gennaro T.,divengono strumenti efficacissimi per la narrazione e l'assimilazione di immagini e sensazioni di diversa etnia.

Così arriviamo alla fortunatissima "Nun te scurdà", in cui ricompare a chiare lettere l'amato reggae, accompagnato da un'alta componente melodica ed emotiva.

Le frequenze basse di un sempre lodevolissimo Mario Formisano e le tastiere di Paolo Polcari (forse la colonna più portante del gruppo), caratterizzano la successiva "Se stuta o' fuoco", di matrice chiaramente dub ed elettronica, così come il brano che chiude l'album, "Tempo".

La fortissima carica emotiva di quest'album rende molto difficile parlarne: sapori e suggestioni caratteristiche possono essere apprese e trasmesse solo tramite l'ascolto, cosicché ogni parola spesa in merito risulta superflua e inadeguata. Parlare di quest'album è come cercare di descrivere le sensazioni, gli odori, i colori che possono essere scovati in un mercatino turco (o anche napoletano): stupendo, vario e senza tempo.

Senza dubbi 5 su 5.

Carico i commenti...  con calma