È una brutta cosa essere ricordati come una one-hit wonder, o comunque come un fenomeno passeggero legato ad un determinato momento: le radio naz-popolari ti ripescano di tanto in tanto, sempre e comunque con QUEL solito pezzo, quasi alla stregua di “Anima Mia”, e nelle menti del popolino radio/teledipendente si forma la convinzione che tu, artista serio, talentuoso e di qualità, sia un fenomeno da baraccone capace di azzeccare solo una/due canzoni. Questo è successo anche agli Alphaville che, forse perché tedeschi e non inglesi/americani, sono stati velocemente dimenticati dopo l’iniziale crack di “Big In Japan” e “Forever Young”. Ma questo combo teutonico-occidentale, uno degli ultimi a poter essere classificato come pop-group con piena dignità, prima che questo termine venisse associato a boyband di infima categoria, ha davvero meritato questo destino? Domanda retorica a cui la risposta è ovviamente no: perché ad esempio i Pet Shop Boys, i Depeche Mode o, peggio ancora, i Duran Duran godono ancora di buona/ottima visibilità e loro no? Boh, misteri ed idiozie del music-biz.
A scanso di equivoci, “Forever Young” è stato veramente l’album della vita per Marian Gold e soci: assolutamente perfetto, senza una canzone fuori posto, nobilitato da capolavori del synth-pop tra cui spiccano “A Victory Of Love”, “Summer In Berlin”, “In The Mood” e “Sounds Like A Melody”. Gli anni successivi riservano una buona accoglienza al secondogenito “Afternoons In Utopia”, inferiore al debutto ma comunque interessante e ricco di ottimi spunti, poi arriva l’oblio con “The Breathtaking Blue”, un gioiellino che amplia gli orizzonti degli Alphaville proponendo stili variegati che a tratti stizzano l’occhio ad altri artisti, come Falco nel caso di “Middle Of The Riddle”, Marc Almond in “Summer Rain” e addirittura Leonard Cohen (ascoltare per credere) in “Heaven Or Hell”. Già, la pletora di critici e stampa musicale nel 1989 era troppo occupata a sviscerare ogni singolo dettaglio del videoclip di “Like A Prayer” per accorgersi della crescita e maturazione artistica degli Alphaville, e così il gruppo si prende una pausa che consente a Marian Gold di debuttare come solista, poi, cinque anni dopo, ritorna in scena con un album che, a partire dal titolo e dalla copertina sembra voler allontanare ascoltatori distratti ed occasionali; si, perchè "Prostitute" appare decisamente lontano dai canoni radiofonici di metà anni '90, un periodo in cui sconosciute starlette pop come Alanis Morissette scoprono come per "magia" di avere un'anima rock e perfino Kiss e Motley Crue giochicchiano a scimmiottare il grunge gli Alphaville riescono ad imporre orogliosamente la propria personalità, dando vita all'album più complesso, eclettico, affascinante ed ambizioso di tutta la loro carriera.
Settanta minuti di durata sono una lunghezza impegnativa, ma "Prostitute" riesce a riempirli quasi tutti con grandissimo stile: l'album non segue un filo conduttore stilistico preciso se non quello della qualità: si passa con nonchalance dalle suggestioni pinkfloydiane di una intrigante e declamatoria "The Paradigm Shift" al reggae sornione e spensierato di "Faith", riuscendo a stupire con una power-ballad mozzafiato come "The Impossibile Dream", con tanto di guitar solo finale, che mette in mostra un trasporto ed un gusto musicale e stilistico completamente sconosciuto alle insulse ballads di parecchi gruppuscoli che si definiscono rock-bands. "Prostitute inoltre sviluppa un discorso musicale già iniziato nel 1989 con magistrali e struggenti piano-ballads come la sofferta ed antimilitarista "Parade" e l'intimismo di un'avvolgente e drammatica "All In The Golden Afternoon", dimostrando così di essere ormai molto più di un semplice gruppo synth-pop.
Ma le sorprese non finiscono qui, "Prostitute" esplora anche territori funk/urban ai confini dell'hip-hop con "Beethoven" e specialmente la fantastica "Ain't It Strange", tutta basso & ottoni con tanto di intermezzo rap senza tuttavia dimenticare le origini degli Alphaville: il pop basato sull'elettronica che li aveva consacrati è ampiamente rappresentato in questo caleidoscopico album, in varie forme: l'altisonante e marziale "Ascension Day", l'epico refrain di "Iron John", forse il punto più spiccatamente 80's del lavoro, "Ivory Tower", un affascinante concatenarsi di autocitazioni retospettive su una base splendidamente ballabile e lievemente gotica, l'amosfera ipnotica di una "Euphoria" che si dipana per sette minuti introdotti da un maestoso guitar solo blueseggiante per poi sfociare in un'entusisamente chiusura corale ed infine "Apollo", una scoppiettante synth-cavalcata che a suon di beat elettronici vorticosi (molte cose dei Muse più danzerecci ricalcano parecchio questo stile) suggella nel migliore dei modi il vertice assoluto (e purtroppo de facto anche il canto del cigno) degli Alphaville.
Già, infatti dopo questo meraviglioso exploit Marian Gold e soci si perdono per strada, nel 1997 arriva un appena discreto "Salvation", poi più nulla fino al recente e mediocre "Catching Rays On Giant", il nome Alphaville va così ad aggiungersi all'elenco dei figli divorati dal Saturno industriale discografico, ma il loro lascito è comunque straordinario, "Prostitute" rimane un essempio perfetto di Pop nobile, di fattura artigianale, arte e non prodotto artificiale, rivolto ad ascoltatori e non a clienti, non fosse per un paio di meri riempitivi sarebbe da 5 stelle piene, ma anche così rimane un prodotto veramente superlativo.
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