Prendi “Tesselate” ad esempio, quel piano sporco, il beat ossessivo e le trame chitarristiche sospese e pulite, come greto di un fiume che scorre tra rapide sinuose e anfratti di calma, nei quali trovi approdi perfetti per fermarsi ad ascoltare il canto delle sirene. Magari ti giri ed osservi con attenzione da dove stai arrivando e rischi di rimanere immobile tra la forza che ti spinge a tornare indietro per osservare meglio tanta bellezza e quella che invece ti costringe ad avanzare per scoprire cosa ti riserveranno le tracce in divenire.

Da un paio di mesi questo fulgido diamante se ne stava lì, sommesso, ogni tanto un ascolto distratto, un paio di volte l’orecchio teso con più attenzione aveva captato che c’era qualcosa di interessante sotto; ma è solo nell’ultima settimana che lo scrigno si è spalancato ed ha mostrato il tesoro che contiene.

Suona in maniera spettacolare, prima di tutto, e questo è sempre un valore aggiunto non trascurabile. Le idee sgorgano da ogni angolo e creano quel disordine fondamentale per una fruizione attiva, perché il tempo per annoiarsi qui non esiste, anzi è sorprendente la velocità con cui tutto scivola e si incunea tra i vuoti. 

In un primo tempo pare eccessivo nel suo specchiarsi consapevole, ma poi ti accorgi in un attimo che sei inconsciamente immerso nell’atmosfera stranamente serena, quasi spensierata e per una volta ti lasci ammaliare e non pensi ad altro.

Talvolta ti appare provocatorio nel suo voler essere ostico per brevi e intensi momenti, che come in un messaggio subliminale creano un’attesa ed un godimento maggiore in attesa delle melodie che ti accartocciano con la stessa semplicità di un foglio di alluminio. 

E’ un susseguirsi di momenti, rifiniture e armonizzazioni vocali, che costruiscono una ragnatela geometricamente perfetta. La semplicità con cui si passa da un coro da raduno degli alpini ad un intreccio chitarristico degno dei Radiohead più ispirati è disarmante; ma il senso di perplessità e spiazzamento dura lo spazio di uno dei tre intermezzi, poi magari ti ritrovi nuovamente catapultato in quel bailamme di stop&go che porta il nome di “Breezeblocks”  e non puoi fare altro che stupirti del senso di mania per i particolari che trasuda da ogni singolo solco.

E’ un lavoro di domande e risposte, perché tutto ha un senso qui dentro, quel senso di sollievo che trova la sua compiutezza nei due gioielli conclusivi che come in una sorta di rito pagano domano il fuoco che può ardere con tale vigore soltanto intorno ad una pietra miliare. Cresce vertiginosamente con gli ascolti ed è inevitabile che sia così, perché la quantità di elementi da approfondire, comprendere ed amare è gigantesca ed ogni volta ne scopri di nuovi.

La voce di Joe Newman è l’ennesimo inganno perfetto di un disco che pare non prendersi mai sul serio, ma che lascia il retrogusto intenso di un vino gran riserva, di quelli che se gli lasci respirare un po’ di ossigeno esplodono in tutto il loro intenso ed inebriante splendore. 

Di cose del genere i discontinui e supersonici anni ’00 non ne hanno regalate molte a mio parere ed è sublime perdersi tra le note di bucoliche di un disco che guarda alle metropoli con occhio distante e distaccato, tanto da sembrare fuori tempo, né passato, né presente, tantomeno futuro, ma liquida sostanza che sembra non poterti abbandonare mai.

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