Diciamocelo pure chiaramente, "Altamont" è il nome più bello che una rock band possa mai darsi. Roba da successo interplanetario, sponsorizzazioni dei grandi marchi e gadgets in quantità industriale: Altamont la maglietta, Altamont il cappellino da baseball, Altamont lo shampoo, Altamont il detersivo. Perché Altamont è la nemesi del rock'n roll, il fato vendicatore e la chiusura in nero di un'intera epoca; la catena del cesso sul flower power, sul '68 rivoluzionario e libertino con tutti suoi eroi ed i suoi ideali.
Dello smisurato ego dei Rolling Stones non se ne poteva più già all'epoca e degli Hell's Angels, pelleborchiati a disagio tra ragazzi di colore in compagnia di belle bionde, meno che mai. Altamont dunque è l'America che sputtana se stessa e che manda affanculo tutta la controcultura rock con lo sputacchio nero tabacco della propria violenza. Perché la storia è bastarda, ricicla e sbeffeggia l'oggi. Ed il cinismo te lo danno nel biberon: allora "Altamont, il lanciafiamme". Ovvero un trio mefistofelico messo in piedi da gente poco rassicurante come Dan Southwick e Joey Osbourne degli Acid King più tale Dale Crover, incommensurabile batteraio degli incommensurabili Melvins. Per chi non conoscesse nessuna delle bands in questione, taglio corto: gli Altamont sono un side-side-project nel più classico degli improduttivi cambi di strumento. Dale Crover suona la batteria da dio ma dopo aver speso tutti i suoi risparmi per una Les Paul Goldtop pretende giustamente di rifarsi i soldi vendendo... questo disco. Dan e Joey suonano nella band della signora Crover (tale Lori King, ugola d'oro degli Acid King, presumibilmente "donna" e sicuramente meno raccomandabile dei tre messi insieme) dunque ci scappa più di una birra insieme durante la settimana.
Tre dischi in tutto (quattro, và), una sostanziosa militanza nel rooster della Man's Ruin (prima etichetta marcatamente stoner ma fallita tra le mani di Frank Kozik) e una folata di idee più o meno interessanti, tra lo stoner e l'indie rock.
"Our Darling" in definitiva è per metà una presa per il culo, per metà no. Nel complesso, una miscela dalle svariate influenze musicali, dal sobrio al totalmente insano: quei dischi che ti piacciono ma in fondo non sai mai perché. Ce li hai. Li metti su ogni tanto e fai: "Uh! Ah! Stoner-punk-indie!". L'apertura è col botto, "Saint Of All Killers" è una marcia sabbathiana che rende omaggio ad uno dei comic book più trashy di tutti i tempi ("The Preacher" e relativo spin off) e si segnala subito con un gioioso assolo di chitarra amplificato col citofono di casa Crover; subito dopo "Short Eyes", la svisata grungey che gaserebbe anche quella vecchina della mia bisnonna centenaria. Un'overproduzione dei suoni e salti di frequenze che sciabolano all'improvviso conferendo a tutto il disco un tono neghittoso, fanculizzante, liberamente cazzone come la voce di Crover che gracchia e dirige l'orchestra. La titletrack è una passeggiata psichedelica dai toni doom, il loop ambient-isolazionista di "Stripey Hole" smorza i toni e schizza via in uno strambo souther-glam ("Chicken Lover"). Spazio anche per un paio di covers deliziose: "Pirate Love" di Johnny Thunders e soprattutto "Young Man Blues" di Mose Allison rifatta come gli Who (l'inizio della registrazione è fintamente "live" e strizza l'occhio allo storico megaconcerto di Leeds!).
Niente per cui strapparsi i capelli ma lo stereo della mia macchina si gasa un casino con 'sta roba: dai Kinks a Brian Eno passando per Black Sabbath, Hawkwind, Heartbreakers e su su su fino a Graceland, per rompere le palle pure alla buon'anima di Elvis.
Altamont, la borsa dell'acqua calda.
E per finire, la buona azione quotidiana del giovane boy scout: invece di far attraversare la strada a quelle lucertole rinsecchite degli Stones comprando l'ennesima rimasterizzazione di Aftermath in super-audio-dolby-surround con occhialini in 3d, confezione digipack e tshirt in regalo, preferisco spendere denaro per questi trucidi.
O andare al cinema a vedere "Altamont il film", quando uscirà.
(Adoro certi dischi di merda)
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