Fra le uscite più interessanti del 2013 annovererei senz'altro “Teethed Glory and Injury” degli oramai dissolti Altar of Plagues, che con il loro terzo ed ultimo lavoro in studio ebbero modo di raggiungere un invidiabile stato di maturazione in tema di post-black metal, sotto-genere molto in voga di questi tempi.

Nati sotto l’insegna di un black metal tanto atmosferico quanto viscerale, e dalla forte connotazione ambientalista (tutti aspetti che avvicinavano la loro proposta a quella degli americani Wolves in the Throne Room), gli Altar of Plagues hanno saputo nell’arco di pochi anni tracciare un'incredibile parabola ascendente, fino a raggiungere (a mio parere) lo zenit con questa release: “Teethed Glory and Injury” finisce per distanziare il trio di Cork non solo dalle ganasce dei Lupetti sopra menzionati, ma anche dagli standard dei due lavori precedenti (i già notevoli “White Tomb” e “Mammal”).

Fin dalla copertina (ottima a mio parere: da mettere accanto a quella di un altro gran bel disco uscito quest’anno, “Sunbathed” dei Deafheaven), il nuovo lavoro degli irlandesi si presenta fresco ed asciutto, snello e privo di lungaggini. Non più quattro lunghe tracce (schema adottato in entrambi i lavori precedenti), bensì nove schegge disarticolate ed alienanti per circa quarantotto minuti di post-black metal deviato e a tratti sensazionale. Permangono in questa desolazione di suoni e rumori diverse soluzioni ancorabili a quel post-rock che aveva ispirato quanto costruito in passato, ma a questo giro i tre decidono di guardare ulteriormente avanti, non cedere alle lusinghe della composizione dilatata ove tutto succede, al richiamo dell'abusato esercizio di tensione e rilascio, ma di sforzarsi di operare entro un minutaggio tutto sommato contenuto (salvo un paio di eccezioni) e districarsi in un tessuto sonoro spigoloso, minimale, ma denso di idee: riff secchi, contorsioni chitarristiche, dissonanze, fulminei cambi di tempo, geometrie math-rock, suggestioni industriali e persino un pizzico di elettronica (conferito da un uso intelligente – e mai invadente – delle tastiere). Non siamo lontani da quanto teorizzato e proposto lo scorso anno dai Liturgy di “Aesthethica”.

Ma gli Altars of Plagues non sono gli Shellac del black metal, piuttosto ricordano, nell'intento di coniugare sintesi e capacità descrittiva, i nostrani Massimo Volume (se mi è concesso il riferimento) ed in particolare quelli monolitici di “Cattive Abitudini”, album che ho molto riascoltato in questi ultimi tempi. Ma se quell’opera aveva costituito per Clementi & soci l’importante ed acclamato (quanto atteso) ritorno dopo un silenzio durato più di dieci anni, “Teethed Glory and Injury” è l’epitaffio di una realtà in stato di incipiente disgregazione. In questa ultima prova sono già presenti i semi del disfacimento, si capisce infatti che gli Altar of Plagues non avrebbero potuto proseguire il loro cammino, non a quelle condizioni. Post che più post non si può (sebbene il carattere estremo della proposta rimanga felicemente integro), “Teethed Glory and Injury” è il salto oltre la siepe di una creatura al top della creatività e dell'ispirazione, ma il cui organismo è già minato dal dilagare di un morbo, di quei conflitti interni che ne decreteranno la fine: un salto verso le stelle, il volo di un'entità persa in un'impossibilità vertiginosa, premessa per una disastrosa caduta allora nemmeno lontanamente intuibile.

Con il senno di poi si avrà dunque l'impressione che James Kelly – voce, chitarra, tastiere e massimo compositore – si sia portato un passo avanti rispetto ai suoi compari, che sembrano in più di una occasione faticare a star dietro alla sua raffinata visione artistica. Ma è probabilmente questa imperfezione di fondo, dettata da un non completo allineamento di intenti fra i membri della band (Dave Condon al basso fa quel che può; Johnny King alla batteria appare qualche volta in affanno nel raggiungere una sintesi dignitosa fra canoniche sparate ed una interpretazione più avanguardistica del proprio strumento), questa mancata comunione di sensibilità, si diceva, conferisce al prodotto un alone malsano, un senso di squilibrio, di irrazionalità, come se la situazione, potenzialmente fuori controllo, dovesse deragliare da un momento all'altro dai binari tracciati dal brillante song-writing di Kelly, dal suo latrato lacerante (di matrice depressive), dall'andamento schizoide che contraddistingue i brani. E' evidente del resto il permanere di una visione essenzialmente critica nei confronti dell'Odierno, una visione che va oltre il già visto messaggio a sfondo ecologista e si allarga fino ad abbracciare l'umano, la sfera dei rapporti interpersonali e i temi dell'alienazione sociale.

Con l'introduttiva “Mills” l'orchestra dell'inquietudine si riscalda (colpi di tamburo fanno il vuoto intorno), fin quando irrompe in tutta la sua violenza il blast-beat di “God Alone”, titolare addirittura di un videoclip che riprende il concept catturato in copertina: ritmiche serrate, grida belluine, momenti di stasi al cardiopalma (da infarto i contro-tempi) e persino un coretto in vocoder (ah, il vocoder nel black metal...), anticipatore dell'estasi panica di un crescendo finale ritratto a velocità supersonica (perché Kelly si dimostrerà anche un maestro nel concertare armonie, linee melodiche in continuo mutamento in cui convivono più chitarre insieme e i suoni sfasati di una tastiera, spesso bissati da voci pulite). Il tutto in solo quattro minuti e mezzo, come a voler anticipare il nuovo modus operandi della band.

“A Body Shrouded” riparte da capo, con il suo andamento sghembo, molto slintiano, ci metterà qualche minuto prima di venire fagocitata nuovamente dalla velocità. I brani, invero, amano indugiare su consistenti porzioni strumentali, poste in genere all'inizio o alla fine (come la bella esplosione post-rock in coda a “Burnt Year”), sovvertendo continuamente il formato canzone. Bravo è Kelly a sviluppare un discorso capace di schivare cali di tensione e di attenzione, una regia che appare credibile sia negli episodi più articolati (“A Remedy and a Fever”, un incubo swansiano lungo nove minuti; la conclusiva “A Reflectioin Pulse Remains”, forte di quella disperazione che la rende il momento più vicino al passato della band), sia quando si decide di tenere ben premuto il piede sull'acceleratore (o per lo meno di non rinunciare alla ferocità tipica del genere, come ben testimoniato dal temibile trittico composto da “Twelve Was Ruin”, “Scald Scar of Water” e “Found, Oval and Final”, nelle quali si alternano senza soluzione di continuità furore noise-rock, la tragica ed epica intensità del black metal più ferale ed asfissianti rallentamenti degni dei più nefasti Asphyx).

Gli Altar of Plagues buttano pertanto nel calderone del post-black metal riferimenti colti come Slint e Swans, distinguendosi da un lato, e dall'altro guadagnando un posto d'onore accanto a coloro che negli anni recenti hanno saputo rivitalizzare un genere quale è il black metal, che pareva essere relegato temporalmente, senza possibilità di appello, alla decade novantiana, e che invece oggi, grazie a nomi come Agalloch, Wolves in the Throne Room, Alcest, Deathspell Omega e molti altri, finisce per rappresentare uno dei filoni più fecondi, creativi ed entusiasmanti dell'attuale panorama metallico.

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