Si pensa sempre che il musicista, nel raccontare una storia all’interno della sua canzone, sia un adulto, con le sue storie alle spalle che ci vengono narrate come appartenessero a tempi lontani e superati. Accade invece spesso che ciò che viene raccontato appartenga semplicemente al momento nel quale viene vissuto e il suo ricordo sia tanto fresco da bruciare ancora sotto la pelle del sentimento. Tutto diviene un’istantanea carica di ricordi, di nostalgie e, talvolta, di rimpianti, per ciò che si poteva fare e non si è fatto, forse per ingenuità, forse per timidezza o forse per la fottuta paura di crescere.
È la storia di tutti, delle nostre estati da adolescenti con il cuore in gola per un bacio, un sussurro in un orecchio per chiedere a quella ragazza che ci piaceva tanto, se gradiva la nostra corte e sentirsi al settimo cielo per un sì. Quei momenti nei quali si stava mano nella mano per ore a dire poco o nulla, proprio perché – a quell’età – è poco o nulla quello che si può dire o fare, vivendo nella totale inconsapevolezza quel primissimo innamoramento, forse indice di tutta una futura vita sentimentale.
In questa atmosfera romantica e sentimentale, dove tutto è ricordo velato, ma anche indelebile, in quell’aura magica che profuma del primo bacio e fa ricordare alla tua pelle quella prima carezza o che riporta alla mente una qualsiasi sera in cui sdraiati sull’erba con il naso all’insù si contavano le stelle cadenti, esprimendo irrealizzabili desideri, nella convergenza di dolci sensazioni dettate dai ricordi, si pone questo poco conosciuto disco italiano del 1974.
Quando i due fratelli Paolo e Bruno Morelli rispettivamente pianoforte e voce e chitarre, si trasferirono a Roma, presero contatto con una band già avviata, nella quale si inserirono, condividendo le scelte fino ad allora fatte, ma anche portando il loro bagaglio culturale e musicale. Nacquero così Gli alunni del Sole che, a dispetto di una carriera folgorata da un paio di canzoni pop di enorme successo di classifica, dimostrarono le loro capacità compositive già dal primo 45 giri: nel 1969 con “Concerto” resero evidente come il linguaggio del pop italiano, la psichedelia e il progressive dei primi vagiti potessero essere accomunati in maniera proficua.
Si cucirono addosso un abito fatto di colori tenui, di suoni carichi di tonalità minori, di un’espressività personale e dolcemente inserita in un contesto nostalgico e dalla lirica pulita, ma senza discostarsi troppo dalla tradizione partenopea che è stata, comunque, la loro scuola d’origine. Gli anni successivi passarono tra singoli, ellepì, festival vari, apparizioni televisive e manifestazioni varie, ma arrivati nel 1974 al loro vertice espressivo, sfruttarono al meglio la versatilità già dimostrata, concentrandosi su questo concept in bilico tra vari sentimenti e aspetti dell’amore.
Il lavoro è da vedere come una sorta di filmino dell’epoca, raccontato in sei porzioni, sei flash fotografici la cui intensità è dettata più dalla carica sentimentale ognuno porta dentro e che la musica fa fuoriuscire, piuttosto che dalla marca espressività dei toni. Il primo panorama è colorato, vivace e “Un manichino in vetrina”, svolgendosi in stazione è contornato dai rumori del treno, dalle voci dei passanti, dal rumore stesso del pensiero che tenuamente prende forma, immaginando che quella ragazza, ferma come un manichino, con la sua valigia rossa e quella bambola multicolore tra le mani, sia a passeggiare con lui, mano nella mano, in passi timidi e forse un po’ impacciati. E gli stessi aspetti li assume la musica, acquarellosa, apparentemente semplice e giocata sul parco crescendo degli strumenti acustici, così che tutto il colore e tutto il rumore sia stemperato nel silenzio e nel bianco e nero di un ricordo ancora vivo, ma destinato a svanire. E dopo la ragazza e il suo alter ego, il manichino, prende forma un’altra fantasia e “La bambola di cartone” che la ragazza teneva tra le mani, diviene il viaggio della maturità, della crescita, di un amore urlato dentro, ma mai dichiarato, di un abbraccio simbolico con chi non ha avuto il coraggio di muoversi e esprimere il proprio sentimento.
Il ricordo prende forma, ha finalmente un nome. Quel nome è stampato a fuoco tra le pieghe del cuore. È indelebile e determinato, ruggisce dentro ma verrà mai fuori, ancora, in maniera delicata ed emozionale, come quel suono che viene da lontano e ridonda nella mente perché nelle sue passeggiate immaginarie con Jenny “Quelle sere in riva al mare... un'orchestrina suonava da lontano”: il pianoforte ribatte, la chitarra acustica scandisce le note, ogni nota è un ricordo, una ferita dalla quale sgorga un’ossimorica gioia malinconica, perché il narratore, forse in forma un po’ masochista, ascolta “Jenny” raccontare del suo amore lontano e che mai più vedrà perché il suo viaggio è ormai iniziato. E, musicalmente, qui le cose cambiano: la tensione emotiva sale. I leggeri tappeti d’archi e l’arpeggio di chitarra, contrappuntato da un rotolante basso di Borra, salgono e salgono fino all’esplosione elettrica dell’assolo di Morelli alla chitarra.
La storia ha poi un break, un’interruzione infilata per doveri commerciali. “Un’altra poesia” è uno dei successi storici della band, presentata anche a Canzonissima, un brano pop molto orecchiabile che, seppur in tema romantico e nostalgico e musicalmente affine, non si lega alla narrazione principale, che – invece – riprende per la finale “Canzoni d’amore” nella quale tutto va in dissolvimento, Jenny inesorabilmente svanisce e lascia la memoria di sé; e a idealizzare il distacco, la lontananza, la netta separazione con la vita precedente è il fiume, rappresentativo del tempo che scorre, del flusso dei ricordi, di una sponda di qua e una di là, di un trascinare via quel che prima c’era e ora non c’è più. E così svanisce pure l’amore fanciullo, ma resta l’immagine di “… io le baciavo le ciglia … eravamo felici … l’estate finiva e dovevo lasciarla …” Tutto è pregno di questa malinconia, forse senza rimorsi, forse senza rimpianti perché alla fine di tutto “… Io scriverò, io ti dedicherò canzoni d'amore …”.
Una liricità quasi classica, un gusto melodico superiore, un piacere naturale per il contrappunto, una grande capacità evocativa e nostalgica, tanti sono gli aspetti positivi di questo disco, che nulla ha da spartire con le banali canzoncine per cui la band era nota, ma – casomai – è più avvicinabile ad un tentativo pop-progressive, ammesso che ciò possa esistere.
Qualche giorno fa è prematuramente mancato Polo Morelli, fondatore, tastierista, principale compositore della band e in qualche modo l’anima vera di questo disco, a lui voglio dedicare queste righe che da tanti, tanti anni tenevo nel cassetto.
Sioulette
p.a.p.
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25 apr 20