Sottotitolo... l'autocompiacimento. Anzi meglio, sottotitolo: "Ma guarda un pò quanto sono figo, genio e sregolatezza intellettualoide, ma così figo perchè mi drogo e ballo come Francis ...sono gggiovane dalla punta dei piedi fino al capello griffato".

No, vabbè, alla fine son pure contento d'esserci andato a stò Dissonanze, mi sono visto il Pattone ad uno sputo di distanza (lo stesso sputo che usa per i capelli), mi son visto i Battles, il miglior gruppo di quest'anno, ed un sacco d'altra gente, però poteva essere fatto meglio 'sto festival. Racconto: parto da Bari alle 5 di mattina dell'1 giugno, arrivo a Roma e raggiungo l'Eur, prima considerazione: il Palazzo dei Congressi è fantastico, mostruosamente enorme, con tre sale: l'Aula Magna, la terrazza ed il Salone della Cultura dove ci potrebbe entrare tutto il Pantheon. In ognuna di queste tre location stasera ci saranno quattro concerti per un totale di dodici concerti a serata, e la sera dopo si replica co' n'altre dodici... fin qui, grandioso.

Alle 23 sono sotto al palco a guardarmi i Battles per il primo concerto dell'evento: un'ora e un quarto di sezionamenti ritmici, segmenti sonori squadrati alla perfezione, esattezza in musica, intelligenza e intuizioni fenomenali sposati contemporaneamente sia con tecnologia che con passionalità, ho finalmente capito cos'è il math rock: è precisione, matematica esattezza in musica, ma loro son grandiosi perchè a questa esattezza uniscono una immediatezza, una sincerità reale, si chiama passione, e se la unisci ad una cosa che si chiama genio hai i Battles. John Stanier picchia maledettamente ma c'ha un metronomo al posto del cervello, suda come Galeazzi ma la passionalità è unita ad una precisione millimetrica nei colpi, con quella batteria assurda, con un piatto solo a due metri d'altezza, giusto per far sentire l'ascella alle prime file. Scorrono i pezzi dell'ultimo fantastico "Mirrored" e anche della loro prima raccolta di ep: "Ep cb Ep" e la gente balla aprendo la bocca dallo stupore, e non ti capita spesso di unire queste due azioni. Dopo "Atlas" è un'ovazione e loro sorridono pure, soddisfatti, neanche quelle quattro gocce di pioggia li preoccupano, insomma, concerto sensazionale.
Dopo ci sarà un tale Apparat, dj tedesco a me sconosciuto, niente di chè a mio avviso, mentre con un tale Nathan Fake le cose andranno meglio, avrà massimo vent'anni stò giovincello che parte dai Kraftwerk nei suoni ma li rielabora in maniera del tutto personale, unendoli a delle trovate che potrebbero essere sia del signor Aphex che dello spacciatore del quartiere, insomma, mica nomi da niente.

A questo punto scendo dalla terrazza e vado al Salone della Cultura e mi si ghiaccia il sangue: qua è puro divertentismo discotecaro, centinaia di gggiovani itagliani con la scimma nel cervello che ballano con la peggior musica house che io abbia mai sentito e realizzo che il salone della cultura è da evitare come la peste, fighette dodicenni con occhiali da sole a forma di cuore per giunta al buio e uomini palestrati che non devono chiedere mai, che ballano come Verdone quando c'aveva il ciuffo rockabilly all'indietro. E così vado a chiedere asilo politico nell'Aula Magna, lungo il tragitto (cento metri) mi fermano almeno venti persone offrendomi mercanzie paradisiache ma molto fashion; accetterò qualcosa, ma questi non sono cazzi vostri. In Aula Magna stanno suonando i Modified Toy Orchestra, ovvero: cinque inglesi esauriti in gessato che suonano dei giocattoli, sì, solo giocattoli, neanche uno strumento normale. Avete presente Golem III dei Mr. Bungle? Le loro canzoni erano di quello stile lì, quindi erano pure bravi 'sti spappati, ma anche solo se uno riesce a fare musica con il kit del piccolo chirurgo inglese, per me è un mito. Dopo di loro suonerà Alva Noto, e l'Aula Magna piomberà in un silenzio devozionale, c'è un megaschermo dietro di lui che proietta immagini di nebulose e di galassie lontane, la gente si divide in estasiati e annoiati, per me.. la seconda che ho detto. Alva Noto mi piace, di suo avevo sentito anche parecchio prima, ma dal vivo si lascia prendere troppo dall'aspetto grafico, e poco da quello musicale, non si tratta neanche di musica ambient, che allora può non piacere a me, ma è musica. No, si tratta di rumori e suoni atmosferici dilatati per tre quarti d'ora con immagini sullo sfondo... "ma ammiratemi quanto sono cervellotico!"... ma anche no, la mia reazione è... dù palle.
Smaltita le delusione per Alva Noto, aspetto Ktl, ovvero tale Peter Rehberg insieme ad un certo Stephen O' Malley, che suona con un gruppetto di provincia di nome Sunn O))), una sola parola: spettrali, il corvaccio di O'Malley suona una chitarra con due testate valvolari dietro di lui, ma i suoni che escono sembrano quelli di un synth e l'effetto straniante delle immagini sullo sfondo fanno il loro dovere insieme alle centrifughe di suono di Rehberg. Dopo di loro torno al Salone della Cultura, giusto per avere una conferma che, a parte terrazza e Aula Magna, tutto il resto è noia, e mi fa rabbia il fatto che agli organizzatori sia venuto in mente di mischiare il caviale dei vari Battles, Mike Patton, O'Malley ecc, con il ketchup di una semplice musica discotecara merdosa con centinaia di idioti che ondeggiano arrapati dietro un Tyondai Braxton che sorride imbarazzato dalla differenza tra "loro" e "tutti gli altri".

Il giorno dopo la situazione nel Salone della CULTURA (!?) non cambia, quindi me ne vado dritto in Aula Magna e mi metto in prima fila, perchè alle due arriverà lì un tipo con i capelli leccati che, tra una cosa e l'altra, ha fatto il meglio che la musica può offrire negli ultimi quindici anni. Prima di lui, salgono sul palco tali Pe Lang & Zimoun, due esauriti che hanno fatto la cosa più strana che io abbia visto in questi due giorni: avevano delle lastre di vetro che vibravano grazie ad un motore, mettevano su ogni lastra un materiale diverso: chiodi, schegge di bicchieri, punes, ecc e dalla vibrazione del piano di vetro sottostante facevano uscire da ogni materiale un suono atmosferico che veniva combinato con il suono delle altre lastre, creando "musica", fino ad arrivare all'intensità di un unico fischio che riassumeva le vibrazioni di tutti i materiali... bisogna stare di fuori per concepire una cosa del genere. Unici rivali in esaurimento due giapponesi (gli FM3) che facevano una cosa, se possibile, ancora più strana: avevano delle specie di walkie talkie e ognuno emetteva un suono diverso, o un loop di basso, o un ritmo o un suono atmosferico, combinavano questi walkie talkie intorno ad un tavolo con due microfoni sui lati come se stessero giocando a carte e facevano "musica" in questa maniera... assurdo. Dopo queste sperimentazioni si tornerà ad ascoltare musica fatta in maniera più convenzionale e saliranno sul palco i Giardini di Mirò, è la seconda volta che li vedo, e devo dire che mi sono piaciuto molto di più questa: attaccano con un pezzo strumentale che chiarisce subito che la solita definizione che gli ignoranti attribuiscono loro: "indie pop-rock", è un pò riduttiva. Mischiano alla triade chitarra. basso e batteria anche trombe, violini, tastiere e campionamenti dando così il meglio nei pezzi senza cantato. Insomma, sono riusciti a non sfigurare in un ambiente non molto congeniale a loro quale quello di un festival di musica elettronica e arte d'avanguardia. Ma ora sono le due...

Mike Patton arriva con passo trionfante senza badare a tutti quelli che urlano "Michele, Michele...Merdallaro" e robe del genere; Fennesz è serio come una sfinge e insieme sistemano tutto il necessario per l'esibizione, Fennesz suona una chitarra unita ad un laptop e vari synth, Patton ha a sua disposizione il solito arsenale di effetti per la voce più anche lui un laptop e vari campionatori. Diciamolo subito: il suono nell'Aula Magna faceva schifo, ed il tecnico m'ha pure fatto incazzare il Pattone dopo l'ennesima volta che l'eccelso gli aveva chiesto di alzare il suo volume e lui non aveva fatto niente. Ma Pattone è dio e può dire "fuck you, motherfucker, gimme more" anche a mia sorella, figuriamoci se mi scandalizzo se lo dice ad un tecnico del suono. Il concerto è stato fenomenale, i suoni di Fennesz erano figli di un'elettronica calda, avvolgente ma furba, con intuizioni spiazzanti che ti si ritorcevano contro non appena tu pensavi che sarebbe andato a parare da tutt'altra parte. Patton, dal canto suo, condiva il tutto col solito estro, urla di terrore e panico alla Fantomas più hardcore, schegge di vocalizzi rielaborati in loop, sospiri e versi e rumori e beatbox filtrati da mille suoni aggiuntivi, tutti generati unicamente da un ugola e poi rielaborati da miriadi di effetti e da una mente geniale. Tre soli "pezzi" se così possiamo chiamarli, per una durata complessiva di tre quarti d'ora. Si intuisce un Pattone innervosito sia dalle continue urla rivolte verso di lui in un ambiente che meriterebbe ben altro raccoglimento, sia dalla pessima acustica. Dopo il terzo si pezzo si gira a Fennesz e gli fa "un altro o ce ne andiamo? Ce ne andiamo, no?" e così se ne va dopo aver salutato "tutti i romanacci". Scenderà più tardi per raccogliere il suo arsenale, con decine di sbarbi che vogliono l'autografo sulla loro copia di Angel Dust... è nervoso, non gli è piaciuto come è stato trattato, non voleva questo, raccoglie la sua roba, fa ridere un pò gli sbarbi facendo l'imitazione di quell'esaurita che si stà esibendo sul palco ballando e cantando su una sedia, promette di tornare a firmare gli autografi, ovviamente non lo farà.

Non è bello fare un concerto di elettronica avvolgente e intelligente con gente che ti urla "Merdallaro... ah Michele" e poi ti viene a chiedere l'autografo, il genio che a trentanove anni ha creato la miglior musica circondandosi con i migliori musicisti del mondo è venuto a Roma, ha dato le sue perle ai porci, questi non l'hanno trattato come avrebbero dovuto, e lui se n'è andato, senza neanche tirarsela, semplicemente con la certezza del fatto che "c'ho ragione io". Che il ragazzo abbia stile si sapeva, e porcamiseria, ce l'ha pure quando se ne va incazzato.

Scusate la lunghezza eccessiva, ma c'erano venti concerti in questo festival, c'era parecchio da raccontare.

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