Il ritorno di Amen Dunes è qualche cosa che accolgo con piacere, anche se senza grosse aspettative, in parte disattese negli ultimi anni e in particolare dal precedente e ambizioso (quello più acclamato) "Love" (2014) che per quanto sicuramente gradevole, non riprendeva quella forma di sciamanesimo di "Through Donkey Jaw" che considero ancora come uno dei dischi migliori di questo decennio e si rivolgeva verso formule di pop-psichedelia più accattivanti.

Damon McMahon ci ha messo un po' prima di definire il suo ultimo disco ("Freedom", Sacred Bones): ci è arrivato con un lavoro di tre anni e dopo avere materialmente buttato via un anno di scrittura e registrazioni nel 2016. A questo punto si è circondato di tutta una serie di collaboratori più o meno illustri a partire dal solito Parker Kindred (Antony & The Johnsons, Jeff Buckley), quindi il chitarrista Delicate Steve, il bassista Guy Seyffert (Beck, Bedouine)... Soprattutto il produttore Chris Coady (Beach House), che lo ha praticamente accompagnato per mano in tutto il processo di registrazione e che poi si è dispiegato in due fasi tra gli Electric Studios di Ner York e i Sunset Soundin Studios di LA. Il risultato finale, a un primo ascolto, è abbastanza positivo: "Freedom" si conferma un disco di psichedelia dai toni oscuri e seppure ripetitivo, nel complesso piacevole e soprattutto nei suoi tentativi mimetizzati di atteggiarsi alla Mick Jagger e giocare a fare i Rolling Stones sott'acqua ("Blue Rose", "Time", "Miki Dora", "Satudarah", "Dracula", "Freedom"...).

Effettivamente sono proprio questi passaggi poi quelli migliori in un disco dove poi si sente un po' di quella già richiamata incertezza e si affaccia spaventosamente lo spettro di roba tipo quella devianza War On Drugs che in questo momento appare essere dominante almeno tanto quanto fino a poco fa poteva esserlo l'influenza Tame Impala. Il punto forte resta la voce ipnotica di McMahon, che però secondo me con queste forme più istituzionali e combinata a certi groove di derivazione indie perde gran parte del suo potenziale e della sua magia. Una considerazione che secondo me egli stesso dovrebbe considerare per il futuro. Nonostante tutto non direi che ci troviamo davanti a un binario morto, non ancora, però rendiamoci conto che se ti ci vai a infilare dentro, poi difficilmente ne esci fuori, anche se alla fine dato che nessuno apparentemente è mai tornato indietro a lamentarsene, dobbiamo convenire che evidentemente gli vada bene così.


  • ALFAMA
    11 giu 18
    Recensione: Opera:
    lontano dagli esordi mi pare un lavoro senza futuro, adotta una formula molto ripetitiva che non lo porterà molto lontano.
  • Ociredef86
    24 mar 19
    Recensione: Opera:
    Devo dire che questo disco a me è piaciuto. Meno rispetto al precedente "Love", ma pur sempre interessante.

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