Non mi toccate gli America! Se è vero che la loro ispirazione e l'estro compositivo sono cominciati a svanire assai presto, tanto che la maggior parte dei loro dischi rasenta forse l'inutilità, l'inizio di carriera fu assolutamente fresco e interessante. In sostanza, consiglio di procurarsi i loro primi due album e cioè l'esordio omonimo del 1971 nonché questo "Homecoming" dell'anno successivo, potendo tranquillamente soprassedere su tutto il resto senza perdersi molto, giusto qualche gioiellino melodico qua e là.
Ritratti spettacolarmente in copertina davanti ad uno degli incredibili tramonti arancioni tipici del deserto californiano, i tre ragazzi (allora praticamente ventenni) riescono felicemente a replicare la qualità compositiva e la fragranza esecutiva del primo album. L'ispirazione verso i grandi gruppi folk-rock californiani, in particolare Crosby Stills & Nash, è netta e totale; si stempererà, negli anni, verso un pop più manieristico ed anonimo, ma per ora la direzione musicale è indubitabile: West Coast.
La loro passione per umori, filosofie e musiche californiane è però acquisita, non assorbita dall'interno, visto che Dewey Bunnell, Gerry Beckley e Dan Peek provengono dall'Inghilterra (Bunnell vi è pure nato, ed il precedente album d'esordio era stato d'altronde registrato a Londra), essendo tutti figli di militari NATO di stanza nel vecchio continente. E' forse per questo che nelle loro musiche eleganti ed accessibili vengono a mancare lo spessore, l'intensità, il coraggio, la follia, la psichedelia, la coscienza sociale, persino il valore aggiunto da stupefacenti vari che i grandi gruppi di San Francisco e di Los Angeles avevano sparso a piene mani, nella seconda parte degli anni sessanta.
"Homecoming" ("Tornando a casa") è quindi l'inevitabile titolo di un disco concepito dopo che i primi successi hanno consentito ai tre di lasciare le rispettive famiglie e stabilirsi nella patria d'origine, per proseguire direttamente dalla California a dar vita ad un ricercato, voluto ed amato involucro sonoro di puro Ovest americano, come si diceva di scarso nerbo concettuale ma piacevolmente fine a se stesso. Non ci sono messaggi, inquietudini, ricerche, animosità, solo tanta inclinazione e voglia di comporre ed eseguire brillanti canzonette, in totale democrazia fra di loro: si assegnano infatti tre brani a testa in quanto a composizione e voce solista, più una cover per un totale di dieci episodi.
Come già accaduto l'anno prima (con la celebre "A Horse With No Name"), la parte del leone la fa una canzone di Bunnell, messa giustamente in apertura: "Ventura Highway" deve però tantissimo del suo successo anche a Beckley, ideatore dell'insistente ed efficace riff di chitarra acustica che solca, costantemente doppiato ed armonizzato da Peek con un'altra acustica, buona parte della canzone. Un "infiorettamento" del canto e dello strumming ritmico di Dewey di importanza vitale per dare al pezzo gradevolezza, dinamica, ricchezza armonica, unicità.
La bella voce di Bunnell (la più interessante delle tre) ottiene comunque la sua performance migliore nell'elettrica e intensa "Cornwall Blank", canzone di respiro assai più ampio del loro solito, con cambi di tempo, assoli lisergici di chitarre elettriche a'la Jefferson Airplane, un canto teso e spiegato degno del David Crosby più carico e visionario.
Beckley è, dei tre, quello più legato alla terra d'adozione, l'appena abbandonata Gran Bretagna. Il pianoforte è il suo strumento favorito, i Beatles un punto di riferimento pari se non superiore al country rock californiano. Delle tre ballate pianistiche da lui proposte, la più efficace mi appare "To Each His Own", dalla melodia squisita e irresistibile.
Dan Peek, che lascerà il gruppo qualche anno dopo riducendo gli America ad un duo per il resto di carriera, contribuisce con l'ottima "Don't Cross The River", che rotola impeccabile nelle sue risonanze elettroacustiche, ricchissima di cori dalle sfumature Byrdsiane. Massima suggestione anche nella conclusiva "Saturn Nights", che offre un riuscito contrasto tra il tenue ed incerto procedere della sua voce solista ed il sontuoso sopraggiungere delle bellissime parti corali.
L'unica cover dell'album riguarda un grande, oggi compianto folk singer britannico, a riprova del cordone ombelicale ancora in essere per loro con la scena musicale inglese. La "Head & Heart" del povero John Martyn è resa in maniera non lontana dall'originale, mantenendone l'atmosfera soffice e confidenziale, con un fangoso pianoforte elettrico dalla curiosa, totale similitudine con quello McCartneyano della ben nota "Come Together" dei Beatles.
Non mi toccate gli America, o almeno fatelo dopo esservi (ri)sentito "Homecoming" ed il suo easy listening artigianale ed ancora innocente, fresco e solare.Carico i commenti... con calma