Wesley Eisold ora lo trovate perennemente in tour con i Cold Cave o a scriver poesie, in un revival dark-wave anni ’80 che strizza l’occhio alla voce baritonale di Ian Curtis, prendendo qualche spunto dai The Cure e aggiungendo al tutto un po’ di synth acidi. Lo potete beccare ad aprire per i Nine Inch Nails in giro per il mondo. Questo nel 2014. Un decennio prima, e anche più, facciamo il 1998 la storia era diversa. Siamo a Boston, viene quasi da dire spontaneamente: “dove altrimenti ?”. Sì, forse giusto California e New York. Un paio di anni in meno e tanta voglia in più di sprigionare le proprie radici hardcore punk insieme ad altri compagni d’avventura. E’ l’anno in cui nascono i...ops, non saprei come chiamarli. No, non è emozione o dimenticanza, semplicemente una stupida causa sull’uso legale del monicker sorta nel 2003. Potrei chiamarli Give Up The Ghost, ma il loro nome di battesimo è American Nightmare. Con buona pace di un gruppo misconosciuto della Pennsylvania che li citò in giudizio per l’omonimia di cui sopra, loro sono gli American Nightmare. Punto.

La traccia lasciata da Eisold & Co. nel mondo hardcore è di quelle pesanti. E’ uno di quei casi in cui si è di fronte a una discografia limitatissima, eppure così decisiva. Cartier-Bresson direbbe saper cogliere l’istante unico e irripetibile. Ecco, al di là dell’azzardato riferimento, gli American Nightmare han fatto proprio questo in una scena musicale che appariva un poco ristagnante, tolti i mostri sacri alla Unbroken che però eran già (tristemente) fuori dai giochi. Il primo lavoro è un debutto grezzo e incendiario che fa salire alla ribalta i nostri ("Background Music", nel 2001) e l’altro ridefinisce loro stessi in primis e poi si piazza lì, come pietra miliare del rinnovamento della scena punk americana: “We’re Down Til We’re Underground”, classe 2003. Più ci penso ogni volta che metto su il vinile e più ci rimango male, un senso di nostalgia mi pervade. Sono ormai passati oltre 10 anni da un full length che suona sempre attuale, moderno e aggressivo come il primo giorno in cui lo ascoltai. Erano i primi tempi delle superiori, ora ho finito l’università. Presumo che sia uno di quei dischi che ti rimane dentro, te lo porti sempre con te, come un bagaglio di ricordi. Non importa in quale lido musicale tu finisca; sai che quando vorrai tornare ai vecchi tempi lui è lì ad aspettarti, pronto a farti riaccendere la fiamma con quel sound del Boston hardcore d’inizio nuovo millennio.

Il cuore lì in copertina non v’inganni facilmente. Qui dentro non c’è tempo per attimi catchy, chorus malinconici e momenti sdolcinati. La lenta escalation semi-acustica di “It's Sometimes Like It Never Happened” vi apre per mezz’ora le porte dell’adrenalina graffiante degli American Nightmare. C’è tanta personalità qui dentro, nessun altro gruppo suona come loro, una combinazione perfetta di precisione letale nello scaricare con il volume più alto possibile i crolli emozionali di Eisold e una ricercatezza nelle scelte ritmiche che vanno a imperversare come una tempesta che non conosce fine. E’ qui, molto probabilmente, lo splendore di “We’re Down Til We’re Underground”: non ha cedimenti, non c’è una caduta di stile, gli ingranaggi ruotano e macinano riff uno dietro l’altro, una fucina di assalti repentini e irresistibilmente abrasivi. I nostri stanno bene attenti a rimanere nel giusto equilibrio fra vecchia scuola hardcore per poi rivisitarla secondo una chiave di lettura moderna. Lungo lo scheletro compositivo vi è una facilità disarmante nel saper indossare le vesti di novelli sperimentatori eclettici. No, non ci sono intermezzi ambient. No, non c’è post-rock, anche se i cinque minuti dell’ultimo pezzo, “And It's Sometimes Like It Will Never End?” ti spiazzano per via del mood dilatato e cadenzato. Nulla di tutto ciò. Va, tanto ho sdoganato i paragoni assurdi quindi tanto vale che faccia saltare fuori pure Mies van der Rohe. Una delle sue citazioni era “God is in the details”. Ecco, io la faccio mia e la rielaboro per gli American Nightmare. Son i dettagli che fanno tutta la differenza di questo mondo, qui dentro in ogni pezzo c’è una peculiarità. Un frammento di melodia. Uno scorcio di spoken word che crea unicità. S’innestano a meraviglia su sonorità sì contaminate, ma dannatamente punk.

Una fragilità che viene sprigionata sotto vagonate di isteria. Ogni tanto ti vien da fermare il vinile che gira e dire: “Caro mio, respira”. A posteriori direi che si capisce perché sia andato a creare un side-project come i Cold Cave. Ce ne son tante di cicatrici da superare per Wes, cercando di rimediare ai propri casini, a situazioni che si chiudono in un vicolo cieco, con uno sguardo al futuro, dove poter ritrovare un po’ di quiete. Ogni cosa fatica ad aggiustarsi fra relazioni capitolate velocemente e sogni che lentamente sotto il peso dell’irrequietudine si trasformano in incubi. C’è bisogno di un po’ di sincerità nel mondo di Eisold e la musica degli American Nightmare lo è. Semplice, senza abbellimenti del caso e soluzioni ridondanti, ma che con la giusta caparbietà è in grado di mutar forma creando uno spaccato dove la melodia trascina o un altro in cui la batteria ti massacra. Sanguinano le orecchie e la speranza si connota tragicamente, è irritante lo scenario del fallimento, ma non sembra esserci soluzione migliore che nascondersi in utopie irrealizzabili. Restando ancorati alle proprie certezze, con la stessa sicurezza le chitarre disegnano un’armatura di stop&go, accelerazioni e break in cui ristabilire un attimo la situazione sotto il cupo incidere del basso. Cinicamente si cerca di risalire e sovvertire l’ordine delle cose.

Questo è tutto. Anche perché un anno dopo l’uscita di “We’re Down Til We’re Undeground” gli American Nightmare splittano e ognuno va per la propria direzione artistica. Dal 2011 hanno ripreso a fare sporadici live show, ma nulla che si possa definire come una vera e propria reunion. Di nuovi lavori manco un’ombra all’orizzonte e sembra proprio che ci si debba accontentare di queste due piccole gemme incastonate a inizio duemila. Un gran bell’accontentarsi, comunque: “I fell hard over myself again I confess my love for everything. I woke up and needed sleep again, I confess my love for everything with the music bleeding in my veins. Goddamn the yesterdays, with the love for all there is to love. We're who you're dreaming of. With the music bleeding in my veins. Goddamn the yesterdays, with the love for all there is to love. You're who we're dreaming of I confess.”

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