L’Islanda è stata sempre la terra dei miei “Basta, mo me ne vado in…”, e delle notti e dei giorni che ho vissuto pensando “vorrei che non finisse mai”. Quando cerco la magia possibile la trovo sempre in questo richiamo alla mia natura nascosta, che ho proprio esplorato grazie a "Kurr" (2007).
L’assenza di moto, di dinamiche fisiche calcolabili e significative, di prospettive dall’alto che guardino oltre l’orizzonte visibile dal suolo, non fanno pensare ad una musica d’evasione. Ma di inclusione. È come stare sotto un albero e uno solo, tra quattro strisce di colore orizzontale. Il nero della terra, il bianco della neve, il giallo stretto della rifrazione dei raggi solari e, di nuovo, il nero coperchio della notte. La dimensione georgica, da panorama naturale schiaffeggiato con pennello su tela, è quella più inconsueta per un mediterraneo. Ma è una buona occasione per viverla. C’è una vacuità riempita da suoni di passaggio e dalle ambientazioni depressurizzate di una crosta terrestre più simile a quella lunare. Ed è lì che ti puoi rendere conto di come suoni l’assenza dell’uomo.
È un momento, un fotogramma vivo, un set estraniato questo lavoro che ibrida il dream pop dei Sigur Ròs con gli incantati, fiabeschi ed assopiti motivi folkloristici islandesi, dedicati al sonno dei bambini. Il minimalismo che riduce la musica ad una soundtrack per catalessi prolungata, raccoglie archi sonanti (e suonati dalle quattro componenti del gruppo) che evocano orizzonti boreali, uno xilofono che calcola le stille sparse in questo spazio limitato, un organo sfiatato di sintesi che di tanto in tanto collabora ad abbassare sempre più il ritmo cardiaco dell’ascoltatore. Ciò non significa che l’attività cerebrale venga interrotta. Gli stimoli alla figurazione di un luogo in cui, se abitui gli occhi al buio, puoi vedere piccoli bipedi asessuati non mancano. È questa la magia possibile. Una reazione che abbassa i toni della musica e racconta di un’umanità impossibile altrove.
Perché, in Islanda, sono pochi.
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