È stato un po' triste vedere che, nello sconfinato sito in cui scrivo, mancasse una (dico, UNA) recensione del gruppo principe dell'improvvisazione elettroacustica. Ossia, gli AMM. Gruppo storico (fondato nel 1966), la cui line-up ha subito numerose modifiche, ed ha visto al lavoro Keith Rowe, Lou Gare, Cornelius Cardew, Lawrence Sheaff, Christopher Hobbs, ed al momento (2010) Eddie Prévost e John Tilbury.
Insomma, gente che con la musica sperimentale ci andava a nozze. Tuttavia, fu un ensemble molto rigida, lontana dalle influenze del free jazz à la Ornette Coleman, che in quegli anni cominciava a farsi un nome. Gli AMM hanno un sound preciso, personale ed unico. Questo è uno dei motivi per cui le loro collaborazioni sono state limitate a pochi episodi. Lo stesso jazzista Steve Lacy (che collaborò ad alcuni lavori degli italiani Area) venne invitato a non suonare durante una loro performance per la mancata coesione di stile. Un concerto degli AMM non è, dunque, neanche una "jam session", come poteva essere l'"Ascension" di John Coltrane. Mancano del tutto i personalismi del jazz, per la stessa ragione per cui è difficile affiancare gli AMM all'opera del Fred Frith solista.
Dopo aver capito cosa gli AMM non sono, vorrei provare a descrivere quello che invece vogliono rappresentare suonando. Prima di tutto, strumentazione: si va dalla chitarra preparata di Rowe, al sax di Gare, alle percussioni di Prévost, Sheaff era al basso, mentre il compositore Cardew si alternava tra pianoforte e violoncello. Tilbury (piano) si aggregò ad un ormai disintegrato gruppo nel 1980, reduci i soli Rowe e Prévost. Da una parte, la storia stessa degli AMM ha fortemente pesato sul clima dei loro concerti: le continue defezioni determinate dal duo maoista Cardew/Rowe, resero spesso l'atmosfera sul palco paragonabile a quella di un campo di battaglia, in cui gli esecutori organizzano assalti e ritirate. Tuttavia è l'approccio all'esecuzione, a rappresentare quanto di più disumano si possa immaginare: per una regola interna al gruppo, non si prepara nulla prima del concerto, e tutto è affidato alla sensibilità con cui i membri rivestono gli spazi vuoti lasciati dagli altri; al termine della performance, non si parla mai del risultato finale. La sensazione che ha un ascoltatore attento, è quella di una tensione spasmodica e spontanea; una lettura pessimistica della natura umana; di una musica fatta per riempire o lasciare scoperti volumi; di transizioni lente tra un paesaggio e l'altro.
Passando finalmente al disco in questione, "Newfoundland" è l'unica, omonima traccia del disco, della durata di 76 minuti. Sì, per chi fosse amante delle stranezze, credo sia tra i brani più lunghi in assoluto nella storia dei compact disc. Durante quest'ora e un quarto, almeno per quanto mi riguarda, si rimane assolutamente rapiti. Il trio Rowe/Tilbury/Prévost, registra questo lavoro in Canada, nell'isola ghiacciata di Terranova (a poche centinaia di chilometri dalla Groenlandia), il 2 luglio del 1992. Non posso non credere che i tre abbiano portato sul palco un'immagine crepuscolare delle scogliere che si gettano nell'Oceano Atlantico. Le note ed i rumori trasmettono la visione, sin dall'inizio, di un cielo plumbeo, di un pomeriggio freddo e senza sole, passato camminando lungo le coste rocciose. Gli unici suoni, sono quelli dei passi, e delle raffiche di vento, che ogni tanto spezzano la coltre di nuvole. Avanzando, soli, capita di ascoltare una vecchia finestra cigolante, e quel lamento entra in testa, si fonde con il rullìo delle onde nervose: stanotte ci sarà burrasca. La passeggiata prosegue, e sorgono, naturali, i pensieri di fantasmi, di porte chiuse... le ansie di ogni sera tornano a farsi sentire.
Il percorso, di qui in poi, è tutto interno, diviso tra la malinconia ed un'inesplicabile monologo di delicati cigolii, sfregamenti, farfuglii. Sono passati ormai 50 minuti dall'inizio della passeggiata, e qualcosa cambia, il suono diventa notturno. La meditazione, ora, prosegue in una casa, un rifugio umano fatto di pareti sottili, luci elettriche, onde radio... appena sufficienti a preservarci dalla furia degli elementi, che si continua a guardare attoniti alla finestra. Si avverte il freddo della notte, ma alcuni accordi di pianoforte tonali, come coperte di lana, riescono ancora a dar calore. Il chiasso della tempesta, fuori, è quasi un piacevole diversivo, e si confonde con il caos umano, che finalmente ottunde le percezioni, sfinisce gli ardori, trapassa con un trapano i dubbi e concede un misericordioso oblio.
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