Era stata una folgorazione. Di quelle che ti possono colpire ovunque. In metropolitana, mentre un passito ambrato ti scorre sulla lingua, mentre sei seduto sulla tazza. Sono partito con il piede nostalgico, perché Insider non è il clone evoluto di un album rock di debuttanti supereroi. L'omonimo Amplifier del 2003 era Superman che saliva in cielo. Guardava la terra dall'alto e tornava indietro come una supernova.
Insider ti arriva pur sempre in faccia come un rinoceronte, ma forse la sua maggiore oscurità è il frutto cerebrale che lo rende meno scioccante. Ma gli echi di apocalissi spaziale che provoca pelle d'oca cosmica ci sono. E non sono briciole.
Il debutto degli Amplifier è stato deflagrante, esplodeva tutto insieme, una canzone dopo l'altra. Il tasto forward non esisteva. Un'unica canzone di un'ora.
Per Insider, ahimè, dobbiamo separare le cose buone da quelle meno buone. La crosta e il nucleo, le parti migliori. Gustav's Arrival apre perentoriamente, con la batteria di Matt Brobin che cannibalizza il respiro. Passo numero due. O Fortuna. Qui si continua a fare sul serio. Balamir prende i cavi dell'alta tensione e inizia a strapazzarli. Si gode mentre gli elettroni sonori ti gonfiano le arterie. Poi il vuoto. Un improvviso disagio antigravitazionale. Come quando in aereo gli sbalzi di pressione ti prendono lo stomaco. Resistere. Ecco che Strange Seas Of Thought ci riporta all'epica di guerre stellari. "Is anybody out there?". Intorno hai solo un mare buio di stelle. F**k. Che la forza sia con noi, perché c'è di nuovo il vuoto. Fino a Hymn Of The Aten e Map Of An Imaginary Place. La scocca dura degli Amplifier. Fatta di riff al kerosene e di percussioni da grande mareggiata.
Carico i commenti... con calma